Se anche il capo dei “falchi” Joachim Nagel sostiene che ci staremmo dirigendo verso la conclusione della stretta monetaria, vuol dire che gli aumenti dei tassi d’interesse saranno limitati dopo quello di maggio. Ieri, tuttavia, sembra avere corretto il tipo dichiarando che dovranno esserci “anche oltre l’estate”. Il governatore della Bundesbank è stato finora uno strenuo sostenitore della politica portata avanti dalla Banca Centrale Europea. Il suo intervento è servito forse a placare gli animi nel board, dopo che alcuni esponenti del Nord Europa avevano richiesto un prolungamento della stretta a dopo l’estate.

Ad aprile, l’inflazione nell’Area Euro è leggermente risalita al 7%, mentre quella di fondo è scesa dal 5,7% al 5,6%. Piccoli segnali di una probabile culminazione della fase rialzista per i prezzi al consumo.

Difficile lotta all’inflazione

Sta di fatto che i segnali che arrivano dall’economia appaiono contrastanti. Da un lato si avverte un rallentamento in corso della crescita, con la produzione industriale in calo nei principali paesi. Dall’altro il meccanismo di trasmissione della politica monetaria zoppica. Quotidianamente, la BCE monitora sin dal 2019 il cosiddetto Estr, i tassi d’interesse all’ingrosso per le banche nell’area. Questa settimana era al 3,145%, -10,5 punti base rispetto al tasso sui depositi bancari. Uno spread mai così alto negli ultimi quindici anni e vicino al record di sempre.

Allo stesso tempo, l’eccesso di liquidità è aumentato del 3% da inizio maggio a più di 4.100 miliardi di euro, il massimo da due mesi. Cosa significano questi dati? Sembra che le banche non abbiano difficoltà a reperire denaro a tassi d’interesse inferiori a quelli fissati dalla BCE. Malgrado la stretta, tra l’altro con la riduzione dei riacquisti dei bond (cessazione da luglio), la liquidità continua ad abbondare. E ciò non sarebbe un buon segnale per la lotta all’inflazione. Si rischia di tenere alta la domanda, favorendo la crescita dei prezzi al consumo.

Ad aggiungere confusione ci pensa l’aggregato monetario M3, quello a cui la BCE fa riferimento per prevedere l’evoluzione dell’inflazione entro i successivi diciotto mesi. A marzo è cresciuto del 2,5% annuale, il livello più basso dall’ottobre del 2014. L’apice fu raggiunto ad inizio 2021, quando a seguito degli stimoli monetari e fiscali contro la pandemia segnava un +12,5% da record. Ma ancora nel corso del 2022 superava il 6,5%. In teoria, il dato di due mesi fa ci riporterebbe al periodo in cui la BCE dell’allora governatore Mario Draghi temeva la deflazione. Qualche mese dopo sarebbe arrivato il Quantitative Easing.

Tassi d’interesse in rialzo: BCE frustrata, ma anche dubbiosa

Riepilogando, da un lato sembra che non vi siano i presupposti per far scendere l’inflazione in misura convincente nei prossimi mesi; dall’altro sussisterebbe il rischio opposto di una caduta dei prezzi finanche eccessiva. L’approccio “data dependent” della BCE altro non sarebbe che un prudente “vedendo, facendo”. Perché ad essere onesti non è del tutto comprensibile cosa stia accadendo sul mercato dei beni e dei servizi. L’unica certezza è che le carte nel panorama globale non le distribuisce la BCE, bensì la Federal Reserve. E se questa ha già deciso di prendersi una pausa per giugno, vuol dire che Francoforte non potrà andare troppo lontana con il rialzo dei tassi d’interesse.

E torniamo al discorso di Nagel. Vi siete chiesti perché il “super falco” abbia quasi preannunciato una tregua monetaria non lontana? L’economia tedesca sta dirigendosi verso la recessione. Produzione industriale, ordini e PIL giù. E se paesi come Italia, Spagna e Francia potranno contare per il terzo trimestre sul boom atteso del turismo dopo la fine della pandemia, la Germania non è di certo una meta per vacanzieri.

La Bundesbank ha nei fatti avvertito Christine Lagarde: va bene con il rialzo dei tassi, purché non la tiriamo troppo per le lunghe.

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