Governo Draghi pronto a varare la riforma fiscale, con il taglio dell’IRPEF come obiettivo largamente condiviso all’interno della maggioranza. Ma le certezze sull’abbassamento delle tasse in vista si fermano qui. Anzitutto, perché i partiti litigano su cosa e come tagliare. Il PD vorrebbe la riforma del catasto, la patrimoniale e l’aumento dell’imposta di successione. Lega e Forza Italia sono fortemente contrarie (neanche il Movimento 5 Stelle vuole colpire gli immobili), chiedono di cancellare l’IRAP e la prima, in particolare, invoca la “flat tax”.

Complice il clima pre-elettorale (si vota in grandi comuni a inizio ottobre), nel governo è una Babele di linguaggi. C’è poi la sostanza. Ed è ancora peggio: solo 3 miliardi di euro per il taglio dell’IRPEF. Sarebbe come immaginare di organizzare il pranzo di Natale avendo in cucina solo un tramezzino. Il premier Mario Draghi vorrebbe abbassare l’aliquota del 38% che grava sul terzo scaglione dei redditi, quelli che vanno dai 28.000 ai 55.000 euro lordi all’anno.

C’è un problema: tagliare un punto percentuale costerebbe mediamente proprio 3 miliardi. Questo significa che o Draghi immagina di portare l’aliquota dal 38% al 37% senza che i contribuenti coinvolti praticamente si accorgano di nulla o abbia in mente di “spezzettare” lo scaglione, così da abbassare l’aliquota di più per una fetta minore di contribuenti. In ogni caso, briciole. Ma sullo scetticismo del taglio dell’IRPEF pesa anche la congiuntura internazionale. Ci riferiamo a quella politica. L’abbassamento delle tasse si ebbe dagli anni Ottanta in avanti sull’onda della “reaganomics” e del thatcherismo. I governi di destra di USA e Regno Unito non solo prospettarono alle altre economie vantaggi dalla riduzione del carico fiscale, ma in un certo senso quasi le costrinsero a farlo per restare competitive.

Taglio IRPEF sempre meno concreto

In questi mesi, la storia sta andando nella direzione opposta.

Gli USA di Joe Biden si sono spostati molto a sinistra sulle tasse, tanto da essersi intestati l’aliquota globale minima del 15% sui profitti delle multinazionali. Il Congresso a maggioranza democratica invoca l’aumento delle tasse sui contribuenti più ricchi. Nel frattempo, il conservatore Boris Johnson ha annunciato aumenti delle imposte per 12 miliardi di sterline all’anno al fine di migliorare il welfare, mentre il probabile nuovo cancelliere tedesco sarà un sostenitore dell’aumento della pressione fiscale sui più ricchi per finanziare un corposo piano di investimenti pubblici.

Se l’Italia non è riuscita ad abbassare le tasse nei lunghi decenni in cui tale stimolo arrivava dall’estero, pensate che varerà un vero taglio dell’IRPEF ora che le principali economie sembrano andare nella direzione opposta? Non solo la riduzione della pressione fiscale diventa un po’ meno conveniente, ma il sostegno a una simile linea sarebbe verosimilmente scarso presso gli organismi internazionali, più preoccupati che l’Italia dopo il Covid metta in ordine i suoi conti pubblici. E se taglio dell’IRPEF sarà, OCSE e Fondo Monetario Internazionale pretendono che sia finanziato da aumenti delle tasse su casa (IMU), consumi (IVA) e ricorrendo a una patrimoniale.

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