“Non c’è fretta”. E’ diventato questo il leitmotiv di una Unione Europea senza bussola. Sul Patto di stabilità l’accordo all’Eurogruppo dell’Immacolata non c’è stato. E la settimana scorsa è stato un buco nell’acqua anche il Consiglio europeo, cioè la riunione dei capi di stato e di governo dei 27 paesi comunitari. A questo punto, l’ultima speranza è affidata all’Ecofin, il vertice dei ministri dell’Economia dei 27. Si terrà domani 20 dicembre e le aspettative sono infime. L’incontro non avverrà fisicamente a Bruxelles, ma in videoconferenza.

E va da sé che nessuno ritiene che un accordo di questa importanza possa trovarsi parlandosi in chat.

Le tre criticità dell’Italia

Ed ecco prendere corpo sempre più concretamente il ritorno in vigore del vecchio Patto di stabilità, sospeso dal 2020 a causa della pandemia. In assenza di novità clamorose, tra meno di due settimane saranno riattivate le consuete regole di bilancio: deficit massimo al 3% del PIL e tetto al debito pubblico al 60%. L’Italia ha minacciato di opporre il veto a una qualsivoglia riforma che non potrà rispettare.

La linea di pensiero di Roma è semplice: la riduzione del rapporto tra debito e PIL è sacrosanta, ma dovrà avvenire secondo condizioni concretizzabili. L’Italia lamenta tre criticità per le quali non sarebbe certa di poter adempiere alle richieste di paesi come la Germania. Una riguarda i costi altissimi del Superbonus, che si trascineranno anche sui prossimi bilanci a causa del mancato gettito fiscale legato alle detrazioni. La seconda ha a che fare con il boom della spesa per interessi, pari a 13 miliardi di euro solo per quest’anno. Infine, c’è il Pnrr. I circa 120 miliardi a debito entro il 2026 aumentano il disavanzo fiscale da qui ai prossimi tre anni. Per questo, il nuovo Patto di stabilità dovrebbe tenere conto delle situazioni effettive e non essere pensato in modo astratto.

Regole di bilancio “congelate” fino all’estate?

Piaccia o meno, l’asse tra Roma e Parigi sul punto sta facendo naufragare qualsiasi speranza di accordo. Le resistenze dei paesi frugali sono altrettanto forti, ma la Germania è tutt’altro che credibile dopo che si è scoperto avere truccato i conti pubblici per 869 miliardi. La premier Giorgia Meloni lo aveva detto esplicitamente insieme al suo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti: anziché accettare una riforma che non potremmo rispettare, meglio tornare al vecchio Patto di stabilità.

E l’ipotesi che sta avanzando in questi giorni per far passare come un mezzo insuccesso il mancato accordo, anziché per l’insuccesso pieno che è, sarebbe di un 2024 di transizione. Poiché la Commissione europea si rinnova dopo le elezioni europee del giugno prossimo, l’idea sarebbe la seguente: riattivare il Patto di stabilità così com’è dal 1997, ma nei fatti senza implementarlo per davvero. I 27 stati resterebbero sospesi tra vecchio e nuovo fino a tutta l’estate, quando dovrebbe essere stato approvato un accordo per riformare il testo. E qualche indicazione arriverebbe dalla nuova Commissione, politicamente legittimata in toto a legiferare sul futuro dell’Unione.

Patto di stabilità, tassi contro deficit

Tuttavia, da Roma fanno sapere che poco cambierebbe anche con la nuova Commissione. I problemi nel trovare un accordo, fanno sapere dal governo Meloni, non si stanno avendo con i commissari, bensì in seno al Consiglio, cioè tra governi. Dunque, le aspettative non sarebbero granché per dopo le europee. Semmai, si guarda con favore al fatto che Bruxelles si prenderebbe altri 6-7 mesi di tempo per trattare. E se nel frattempo la Banca Centrale Europea taglierà i tassi di interesse, spiega sibillino Antonio Tajani, qualcosa può cambiare dal punto di vista italiano. Il ministro degli Esteri adombra un possibile baratto tra politica monetaria e politica fiscale: abbassateci un po’ il costo del denaro e saremo maggiormente in grado di rispettare le regole di bilancio più stringenti.

In tutto questo discorso sul Patto di stabilità c’entra sempre il Mes. L’Italia è l’unico paese a non avere ratificato la riforma, impedendone l’entrata in vigore. Il Nord Europa preme particolarmente perché ciò avvenga presto, ma Roma non cede. Ufficialmente, nega che sia una forma di ricatto per spuntare migliori condizioni sul Patto. Nei fatti, lo è. Tale riforma rafforza il salvagente sovranazionale a favore delle banche europee e poiché a poterne averne bisogno sembrano essere allo stato attuale più gli istituti nordici, l’Italia può tirare la corda. Del resto, Meloni lo ha chiarito senza fronzoli: non c’è motivo per cui consentiamo agli altri di ripararsi sotto regole loro più favorevoli senza che noi riceviamo nulla in cambio.

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