Non partono più con la valigia di cartone, bensì spesso con una laurea in tasca. Nel decennio al 2021, si stima che almeno 317 mila giovani italiani tra 18 e 34 anni siano andati a vivere all’estero, al netto dei quasi 135 mila ingressi. Ma poiché molti non si iscrivono neppure all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero), i numeri sarebbero molto più alti. E tre su dieci hanno un’istruzione terziaria, per cui l’Italia subisce una perdita di capitale umano preoccupante, tra l’altro dopo aver investito su di esso.

I cosiddetti “cervelli in fuga” o tecnicamente “impatriati”, secondo la definizione che ne dà la normativa, sono all’attenzione dei governi negli ultimi anni.

Stretta su impatriati

L’art.16 del D.Lgs 147/2015 varò una serie di benefici fiscali per favorirne il rientro. Il Consiglio dei ministri del 16 ottobre scorso ha apportato alcune modifiche in senso restrittivo alla disciplina, introducendo nuovi requisiti. Diverse migliaia di impatriati perderanno in tutto o in parte tali benefici fiscali e i gruppi Whatsapp e social già pullulano di giovani che si stracciano le vesti.

Cosa prevedeva la vecchia normativa? Chi avesse trasferito all’estero la residenza fiscale almeno nei due anni passati, sarebbe potuto tornare in Italia pagando le imposte solamente sul 30% dei redditi dichiarati. Per coloro che si fossero trasferiti in una regione del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), le imposte sarebbero state calcolate solamente sul 10% dei redditi. Il beneficio era stato previsto per cinque periodi d’imposta, prorogabili per altri cinque a certe condizioni.

Con le modifiche di una settimana fa, il beneficio scende dal 70% al 50%: a partire dal 2024 le imposte saranno calcolate sulla metà dei redditi dichiarati fino a un massimo di 600.000 euro e per cinque anni. Non solo. Si è considerati impatriati dopo essere stati fiscalmente residenti all’estero per almeno tre anni (dai due sinora richiesti).

In più, l’attività lavorativa deve essere svolta alle dipendenze di un nuovo datore di lavoro e bisogna essere in possesso di titoli di specializzazione o alta qualificazione.

Lamentele legittime, ma non condivisibili

In pratica, gli impatriati pagheranno più tasse di prima e saranno in meno ad essere ammessi a tale beneficio. Il piagnisteo dei diretti interessati è legittimo, ma non per questo condivisibile. Quale sarebbe la ragione per cui un italiano che abbia trascorso un periodo all’estero debba versare al Fisco nostrano meno tasse di chi è sempre rimasto in patria? La risposta più immediata risiede nella capacità di attrazione di capitale umano. Certo, ma ciò riguarda nel complesso il sistema fiscale e il mercato del lavoro italiani.

Se l’Italia costringe molti giovani ad espatriare e non attira lavoratori stranieri, è perché offre poco in termini di prospettive professionali e retributive e chiede troppo in termini fiscali. Serve ridurre la tassazione sui redditi e vivacizzare il mercato del lavoro, ma a favore di tutti. E’ inaccettabile che ad essere premiato sia soltanto chi abbia magari goduto di un’istruzione universitaria in Italia e legittimamente abbia deciso di trasferirsi all’estero per cogliere migliori opportunità lavorative. Chi è rimasto in Italia, pur tra mille difficoltà, deve per caso essere discriminato dallo stato?

Impatriati non migliori di chi rimane nel Bel Paese

La stessa espressione “cervelli in fuga” è aberrante per milioni di giovani che si scommettono quotidianamente nel nostro Paese. Come se andassero all’estero solo i più intelligenti e rimanessero in patria i cretini. D’altra parte, la stretta sugli impatriati sul piano qualitativo appare persino naturale. Con tutto il rispetto possibile, risulta incomprensibile che un pizzaiolo che abbia lavorato a Londra, tornando in Italia abbia ad oggi diritto a pagare il 70% di tasse in meno di un suo collega residente.

Quale capitale umano avremmo importato con quella misura?

Gli impatriati non sono privi di ragione quando affermano che, in alcuni casi, abbiano deciso di tornare a vivere in Italia sulla base di una normativa poi mutata in modo peggiorativo. Lamentano una carenza di credibilità dello stato italiano. Già, la stessa contro cui ogni giorno combattono i connazionali rimasti nel Bel Paese. Basti pensare agli incentivi edilizi che negli anni recenti hanno subito modifiche al ritmo di una volta al mese, facendo impazzire milioni di beneficiari. Non è garantendo uno status speciale agli impatriati che si attira capitale umano. Dopo tutto, i numeri ufficiali dimostrerebbero che la percentuale di laureati in fuga all’estero sia sostanzialmente simile a quella generale. Dunque, chi rimane non è mediamente meno istruito. L’Italia deve migliorare le prospettive di vita per tutti i suoi cittadini, non solo per coloro che hanno girato i tacchi.

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