La politica ha scoperto gli stipendi bassi degli italiani. Con una trentina di anni di ritardo. Si moltiplicano le proposte per aumentare le retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Dopo essere stata al governo della nazione per un decennio quasi ininterrottamente, la sinistra dai banchi dell’opposizione punta sul salario minimo di 9 euro l’ora. Viene da chiedersi perché non 10. Melium abundare quam deficere, no? L’unica verità è che effettivamente l’Italia ha perso fin troppo terreno rispetto a tutte le altre economie avanzate.

I dati OCSE sono impietosi: tra il 1990 e il 2020, gli stipendi reali italiani sono diminuiti del 2,9%. E’ stato l’unico caso con il segno meno. In Francia e Germania, ad esempio, la crescita ha superato il 30%.

Ma fino al Covid, gli stipendi bassi non erano mai entrati realmente nell’agenda di alcun governo a Roma. Insensibilità o ignoranza della classe politica? Può darsi. Il tema è pernicioso. Stipendi più alti richiedono minori margini di profitto, a parità di produttività, oppure stimolano l’inflazione. L’Italia si mise alle spalle l’instabilità dei prezzi solo a inizio anni Novanta. In un certo senso, rimettere in discussione un modello economico fondato su bassa inflazione e bassa litigiosità sociale non conveniva a nessuno.

Post-globalizzazione rimette in discussione modello economico italiano

Tuttavia, gli stipendi bassi non erano percepiti come un grosso problema per una ragione sopra le altre: sin dalla metà degli anni Novanta, l’economia italiana è diventata esportatrice netta. Un paradosso per i nostalgici della lira. Fu con l’avvicinamento prima e l’ingresso dopo nell’euro che iniziammo ad esportare più di quanto importavamo. Il trend divenne più nitido nel decennio pre-Covid. In quel quarto di secolo, gli stipendi bassi consentivano alle imprese italiane di risultare più competitive sui mercati internazionali. E la bilancia commerciale in attivo garantiva un minimo di crescita economica.

Con la pandemia, i paradigmi su cui si reggeva l’economia mondiale sono parzialmente cambiati. I mercati si sono chiusi, non si parla più di globalizzazione, quanto di reshoring, cioè di accorciare le catene di produzione. I mercati di sbocco tendono ad essere più vicini a quelli in cui avviene la produzione. Le tensioni geopolitiche stesse hanno convinto governi e multinazionali che le delocalizzazioni non siano sempre un grande affare. Questo, però, ha un’implicazione negativa per economie esportatrici come Italia e Germania. La loro crescita non può più fondarsi con certezza sulla vendita di merci e servizi nel resto del mondo.

Maggiore attenzione a consumi famiglie

E se le esportazioni non sono più sicure, su cosa bisogna puntare per crescere? Sulla domanda interna, ossia i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Chi dispone di margini fiscali, poi, può anche permettersi di aumentare la spesa pubblica in deficit. Non è il caso dell’Italia. Ma qui casca l’asino: se gli stipendi sono bassi, i consumi non possono crescere più di tanto. A maggior ragione che l’inflazione sta divorando il potere di acquisto dei lavoratori italiani come in nessuna altra parte d’Europa.

Ecco il motivo per cui il tema degli stipendi bassi è diventato centrale dopo decenni. Finite le certezze pre-Covid sulla globalizzazione, la politica è costretta a guardare in faccia la realtà. Senza retribuzioni adeguate, non si cresce. Il punto è che queste non possono essere aumentate con la bacchetta magica. La parte difficile arriva proprio adesso. Affinché i lavoratori possano guadagnare di più, è necessario che aumenti la loro produttività. E non dipende solo da loro, bensì anche dal sistema delle imprese. Servono investimenti in tecnologia, ammodernamenti degli impianti, ingrandimento delle dimensioni aziendali, ecc.

Stipendi bassi e nodo produttività

La politica aveva volutamente ignorato il tema dei bassi stipendi per troppi anni, consapevole che avrebbe coinvolto il modello economico su cui è impostata la produzione italiana.

Avrebbe dovuto rimettere in discussione alcuni capisaldi, come le piccole dimensioni delle imprese, lodate per lunghi decenni e mai oggetto di riflessione critica. All’estero non ci si capacita del perché gli imprenditori italiani siano e vogliano rimanere piccoli. Ciò comporta problemi di sottocapitalizzazione, che a loro volta tengono bassi la produttività e gli stipendi di chi vi lavora alle dipendenze.

La fase di possibile “deglobalizzazione” post-Covid rischia di aumentare stabilmente i costi di produzione, ossia anche l’inflazione. E questo rende ancora più urgente occuparsi degli stipendi bassi. Dopo un trentennio di basso scontro sociale, il ritorno dell’inflazione può rimettere i lavoratori contro le imprese e generare non solo tensioni, ma anche una sterile rincorsa tra prezzi e salari. La politica è costretta a recuperare il tempo perduto, ma il guaio è che la fretta non è mai una buona consigliera. E il modo superficiale in cui si affronta questo capitolo spinoso in Parlamento e nel dibattito pubblico lo dimostra.

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