Lo “smart working” per i dipendenti pubblici in Italia avrebbe i giorni contati. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha espressamente dichiarato che questo sistema di lavoro agile dovrà essere un’eccezione per la Pubblica Amministrazione, da impostare sulla base delle effettive necessità. Parole che hanno fatto molto rumore, anche perché con la pandemia si pensava che fosse scontato un passaggio graduale, pur nei limiti delle possibilità concrete, al lavoro a distanza.

Ma Brunetta crede così poco allo smart working, da avere fissato al 15% la quota dei dipendenti pubblici che resterebbe ad usufruirne.

E ha aggiunto che, a suo avviso, la ripresa piena dell’economia italiana avverrebbe solamente con il loro rientro in ufficio. Un pensiero controcorrente, se consideriamo che multinazionali come Google, Twitter e Facebook abbiano optato per consentire ai propri lavoratori di lavorare a distanza per sempre, ove lo desiderassero. In qualche caso, dovrebbero accettare un taglio della retribuzione per adeguare quest’ultima al costo della vita del luogo di residenza/lavoro.

Brunetta contro smart working, ecco le ragioni

Il ministro, che già nell’ultimo governo Berlusconi si distinse dalla stesso ruolo per il suo attacco all’assenteismo nella Pubblica Amministrazione, non è dello stesso avviso. Non spiega nel dettaglio perché, ma abbiamo cercato di riassumerne le motivazioni. La più accettata sarebbe che lo smart working abbia accresciuto la produttività nel settore privato, ma l’abbia fatta collassare in quello pubblico. Non che brillasse prima della pandemia con le presenze in ufficio. Semplicemente, i già scarsi controlli sono venuti meno. Ne è prova il fatto che persino una direttiva comunitaria abbia allungato i termini per il rinnovo di documenti come la carta d’identità e la patente, prendendo atto del fatto che gli uffici pubblici con il Covid non stiano funzionando come dovrebbero.

Del resto, gli utenti lo sanno già.

Mancano dati ufficiali, ma il senso comune è che la produttività in alcuni uffici sia crollata. Non è tutto, però. Avete presente il caso del dipendente della Regione Lazio, che aprendo inavvertitamente la posta elettronica s’è beccato un virus provocato da un attacco informatico, portando per giorni al collasso del sistema di prenotazione del vaccino? E’ stata la spia più clamorosa di un problema già risaputo di sicurezza informatica. Con lo smart working, i dipendenti pubblici usano perlopiù dispositivi personali per lavorare, con una miriade di dati riservati dei cittadini esposti a rischi e a carenti tutele della privacy. Negli uffici, si eseguono protocolli avanzati per minimizzare i rischi e tenere alta la garanzia di riservatezza dei dati trattati. Tutto ciò non è sempre possibile a distanza, a meno di dotarsi di dispositivi forniti dalla stessa amministrazione.

Infine, c’è il sistema economico, così come ha svelato nei fatti Brunetta in poche parole. Attorno ai 3 milioni di dipendenti pubblici ruota il business delle pause pranzo, dei beni e servizi legati alla mobilità (trasporti pubblici, stazioni di servizio, etc) e di altri meno evidenti come l’abbigliamento, etc. Un dipendente da casa non farà benzina per lavorare, usurerà più lentamente l’auto, non mangerà a pranzo in un ristorante o al bar e non rinnoverà il guardaroba con la stessa frequenza. Se questo cambiamento epocale avvenisse dall’oggi al domani, un pezzo dell’economia italiana andrebbe a farsi benedire. Anche per questo sul governo crescono le pressioni delle lobby per un rientro in ufficio quanto più veloce e diffuso possibile. Ma nessuno s’illuda che i cambiamenti possano fermarsi con le circolari ministeriali.

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