Si chiamano “single limb Collective Action Clauses” e verranno introdotte entro il 2022 nell’Eurozona. Lo ha deciso a inizio mese l’Eurogruppo, il consesso dei ministri finanziari dell’Area Euro, nel silenzio generale della stampa, che come per le CACs e il “bail-in” degli ultimi anni continua a mostrare sostanziale disinteresse e ignoranza in merito a questioni fortemente cruciali per il futuro dell’unione monetaria. Francia e Germania hanno guidato il fronte dei paesi favorevoli a semplificare le norme per la gestione di eventuali casi di ristrutturazione del debito sovrano.

Come? Sin dal 2013, i titoli di stato con scadenza superiore all’anno nell’area vengono emessi con clausole innovative, le cosiddette CACs, le quali fissano le condizioni a cui potranno avvenire mutamenti nei pagamenti dei bond. Ottenendo il via libera delle assemblee dei creditori con maggioranze che vanno, a seconda dei casi, dalla maggioranza semplice ai tre quarti, sarà possibile per i governi ottenere il rinvio delle scadenze (“roll over”), il taglio del valore nominale di rimborso alla scadenza (“haircut”), la sospensione e/o il taglio delle cedole, la conversione dei titoli in una valuta diversa di quella di emissione, un mix di queste misure e altro ancora.

Debito pubblico: ristrutturazione possibile con le CACs, ecco cosa rischia l’investitore in BTp

Con le nuove norme, questo processo di ristrutturazione verrebbe ulteriormente agevolato, rendendolo “ordinato e prevedibile”, così nelle intenzioni dell’Eurogruppo. Rispetto alle attuali clausole, sarebbe consentita una revisione delle condizioni contrattuali con una votazione favorevole della sola assemblea generale degli obbligazionisti, senza passare più per quella relativa alla specifica emissione. Facciamo un esempio per capirci: se il governo di uno stato X decidesse di rinviare il pagamento di tutti i titoli in scadenza l’anno successivo, a causa delle condizioni profondamente sfavorevoli a cui risulta accedere sul mercato, oggi come oggi dovrebbe passare per il via libera sia dell’assemblea dei creditori della massa complessiva dei bond oggetto della ristrutturazione, sia di tante assemblee quanto siano le emissioni coinvolte.

Poniamo che queste fossero 20, bisognerebbe convocarle tutte e 20.

Con il “single limb CACs”, basterebbe far votare un’unica assemblea, quella che raccoglie tutti i creditori dei bond sottoposti alla ristrutturazione. E’ evidente che il processo si semplifichi e che il governo avrà molte più chance di spuntarla. Sappiamo, infatti, che il grosso dei bond si trova in mano a investitori istituzionali (banche, fondi, assicurazioni), i quali si mostrano maggiormente inclini a soddisfare le richieste dei governi, non fosse che per il potere negoziale che posseggono nell’ottenere compensazioni su altri piani (normative meno stringenti, alleggerimenti fiscali, etc.). Dunque, il potenziale potere di blocco delle minoranze nelle specifiche assemblee verrebbe superato senza grossi ostacoli. Prendiamo l’Italia. Se nella massa delle emissioni da ristrutturare vi fossero quelle relative a uno o più BTp Italia, trattandosi di titoli in possesso perlopiù di investitori individuali (famiglie), sarebbe difficile prevedere l’esito della loro votazione. Probabile che si esprimerebbero contro, impedendone la ristrutturazione. Se, invece, i loro voti venissero accorpati con quelli dei restanti creditori delle altre emissioni, la loro quota si diluirebbe nell’unica assemblea convocata e ciò li renderebbe molto più innocui.

Come interpretare questa evoluzione normativa? Senz’altro, favorevole ai governi. Essi hanno a disposizione un’arma potente per rivedere le condizioni dei debiti emessi, potendoli anche parzialmente cancellare senza le grosse difficoltà ad oggi riscontrate. Attenzione, però, perché anche per gli stessi emittenti rischia di trasformarsi nella classica vittoria di Pirro. Se il mercato fiutasse la probabilità non bassa di ritrovarsi in futuro a essere sottoposto a una qualche forma di ristrutturazione, pretenderà sin dall’inizio rendimenti più elevati, scontando le potenziali perdite.

Ciò innescherebbe un circolo vizioso – le famose profezie che si auto-avverano – perché la lievitazione dei costi di emissione in sé renderebbe più probabile proprio il ricorso alla ristrutturazione. Chiaramente, si tratta di un rischio che colpisce particolarmente gli stati più indebitati, visto che oggi sarebbe molto difficile immaginare che il mercato richieda un premio extra alla Germania per acquistare i suoi bond, anche sotto la nuova disciplina. Il plus verrebbe richiesto a Italia, Spagna, Portogallo, non parliamo nemmeno della Grecia, che già nel 2012 ristrutturò il suo debito per una tagliola totale di 107 miliardi di euro.

Il rischio di una crisi dello spread permanente

Questo significa, però, che le distanze tra economie “core” e periferia non farebbero che ampliarsi sui mercati finanziari, anziché ridursi. Sorge, poi, un altro problema. Le “single limb CACs” verranno introdotte per rispondere alle ansie degli stati del nord, i quali chiedono la ristrutturazione preventiva dei debiti sovrani ai paesi che volessero accedere al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il fondo istituito per fronteggiare i salvataggi di Grecia, Portogallo, Irlanda e delle banche spagnole e cipriote. Lo stesso Eurogruppo, infatti, ha preso atto che ad oggi non esiste un meccanismo di sostegno finanziario per gli stati dell’area, nel caso in cui perdessero l’accesso ai mercati. L’Outright Monetary Transactions (OMT) della BCE, varato nella drammatica estate del 2012 e sinora mai attuato, si presenta troppo rigido, in quanto condizionato all’espletamento di misure a carico dei governi richiedenti, trasformandosi sostanzialmente in un commissariamento e, quindi, in una sorta di umiliazione politica a cui nessuno sembra intenzionato sottoporsi.

Il Mes sarebbe anch’esso condizionale, ma si presume meno rigido dell’OMT. Per non istigare comportamenti di “azzardo morale”, ecco trovata la soluzione della previa ristrutturazione del debito facilitata. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, è necessario che il debito di uno stato sia considerato “insostenibile”. E qui sorge un’altra difficoltà tecnica, visto che nessuno avrebbe la capacità di indicare con certezza quando ciò avvenga.

Si entrerebbe nella politicizzazione pura e le tensioni tra stati monterebbero. Da qui, il dibattito sull’opportunità o meno di ricorrere alla fissazione di determinate soglie, superate le quali scatterebbe la definizione di insostenibilità, per cui sarebbe possibile l’accesso al Mes, preceduto dalla ristrutturazione. Per l’Italia, sarebbe un dramma, avendo noi insieme alla Grecia il più alto rapporto debito/pil d’Europa. Poniamo che l’Eurogruppo fissasse al 140% del pil la soglia di insostenibilità. Saremmo a un passo dall’arrivarci, per cui lo spread si allargherebbe pure se al governo vi fossero Mario Monti come premier e Carlo Cottarelli ministro dell’Economia. Gli stati verrebbero messi sotto pressione per tagliare il rapporto debito/pil, ma resta da vedere in quali modi.

Strozzare l’economia con tagli indiscriminati di spesa e/o aumenti delle imposte finirebbe per aggravare il rapporto e ciò allarmerebbe ancora di più i mercati. Insomma, un disastro. Lo stesso dicasi nel caso di ristrutturazione in Italia, essendo il nostro debito per oltre i due terzi detenuto da soggetti residenti. La domanda interna semplicemente crollerebbe, potenzialmente più che annullando l’effetto benefico sui conti pubblici. Eppure, questa sarebbe la china su cui ci stiamo avviando. Le CACs prima e le “single limb CACs” tra qualche anno non sono altro che la risposta (sbagliata) dell’asse franco-tedesco alla crisi fiscale italiana. Berlino e Parigi vorrebbero quasi indurre Roma a ristrutturare il suo immenso debito, nella convinzione che non disponga di alternative pratiche. Tale sfiducia, osteggiata anche in queste settimane di minuziose trattative sui decimali di deficit con Bruxelles, quando alla Francia viene consentito persino di sforare il tetto del 3%, rappresenta la vera minaccia alla nostra permanenza nell’euro, perché è evidente che di questo passo i mercati si convinceranno in maniera definitiva del fatto che per l’Italia non ci sia posto nell’unione monetaria, se non a condizioni politicamente insostenibili. La crisi dello spread non è un “imbroglio”, come lo ebbe a definire il neo-europeista Silvio Berlusconi, piuttosto il frutto di una sfiducia politica verso l’Italia, che è finita per contagiare i mercati. E tutto lascia presagire che nei prossimi anni non andrà meglio, anzi.

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