Italiani sempre più formiche durante la pandemia, anzi perlopiù a seguito di essa. Stando all’Abi, in aprile la raccolta delle banche è salita complessivamente a 1.970,6 miliardi di euro, in crescita di 119,2 miliardi su base annua. Il fenomeno è uguale anche nel resto del mondo. Tra restrizioni anti-Covid e la paura stessa di uscire di casa, i consumi delle famiglie sono diminuite e la propensione al risparmio cresciuta.

Tuttavia, se andiamo a vedere quanto questi risparmi siano stati remunerati, ci accorgiamo che le famiglie abbiano perso reddito per strada.

Nell’aprile 2020, ad esempio, il tasso medio di remunerazione era dello 0,56%, mentre due mesi fa risultava sceso allo 0,47%. A conti fatti, la raccolta bancaria ha offerto ai clienti appena 9,3 miliardi di euro di interessi contro i 10,4 miliardi di un anno prima. Una perdita di 1,1 miliardi, quindi. E se il tasso medio fosse rimasto invariato, i clienti avrebbero portato a casa oltre 11 miliardi, cioè 1,7 miliardi in più.

Insomma, abbiamo risparmiato di più e incassato di meno. A cosa è dovuto questo apparente paradosso? In parte, alla composizione della raccolta stessa. Da diversi anni, le obbligazioni bancarie si contraggono incessantemente nei portafogli delle famiglie. L’ultimo dato le dà a 214 miliardi di euro. Erano a 374 miliardi nello stesso mese del 2016. In 5 anni, sono diminuite del 43%. Questi titoli offrono tipicamente rendimenti ben più alti (in media, l’1,82% nell’aprile scorso), ma a fronte di un rischio altrettanto elevato.

Risparmi infruttiferi e sfiducia nel sistema

Il problema principale si chiama, però, tassi a zero o negativi. La BCE ha azzerato il costo del denaro per sostenere l’economia nell’Eurozona e applica da anni tassi negativi sui depositi delle banche presso i suoi sportelli. Tant’è che gli istituti stanno iniziando a informare i clienti che sopra certe cifre non potranno più tenere conti correnti accesi, in quanto l’eccesso di liquidità si tramuta per loro in un costo.

La verità è anche che non sanno a chi prestare denaro, se non impiegarlo sui stessi mercati finanziari. Un segno inequivocabile della debolezza dell’economia cosiddetta “reale”, vale a dire di imprese e famiglie.

Ma il boom dei risparmi infruttiferi risente di un problema cronico e ormai preoccupante, almeno in parte: la scarsa educazione finanziaria. I dati Pisa dell’OCSE ci collocano stabilmente da anni negli ultimissimi posti della classifica europea per conoscenze finanziarie. Ci capiamo mediamente poco di mercati e preferiamo per questo affidare i nostri risparmi alle sole banche, dove pensiamo di non correre alcun rischio. Il resto lo fanno diffidenza ed eccesso di cautela. Gli italiani non mettono facilmente i loro risparmi nelle mani dei professionisti, né sono propensi a investire in titoli “non sicuri”. Gli scandali di questi anni non hanno di certo aiutato, così come neppure la scarsa fiducia che come cittadini riponiamo nelle istituzioni.

La prudenza è un atteggiamento certamente sano nella vita, così come nel mondo della finanza. Ma quando diventa eccessiva, finisce per paralizzare, per fare perdere occasioni ghiotte per mettere davvero a frutto i propri sacrifici. Pensate solamente che se i 1.970 miliardi e passa portati in banca fossero impiegati in asset redditizi anche solo per l’1% in più all’anno, le famiglie incasserebbero circa una ventina di miliardi in più, qualcosa come oltre un punto di PIL. Aumenterebbero i consumi e senza necessariamente dover lavorare di più. Invece, la sola inflazione fa perdere quasi l’1% del potere di acquisto di questa liquidità infruttifera. In pratica, anziché guadagnarli, gli italiani stanno buttando dalla finestra quasi una ventina di miliardi ogni anno.

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