L’annuncio di una tassa del 40% sui profitti “extra” delle banche italiane è stata una grossa stupidaggine. Il governo Meloni ha rischiato di intaccare la reputazione sui mercati internazionali per un provvedimento che, nel migliore dei casi, non porterebbe nelle casse dello stato più dello 0,2-0,3% del PIL. E’ vero che in questi mesi ogni centesimo in cassa serve, ma un’analisi benefici-costi avrebbe dovuto dissuadere l’esecutivo di centro-destra dal fare una cavolata così grossolana. Poiché le marachelle, una volta fatte, non si possono cancellare, serve metterci una toppa.

Già dopo il martedì nero in borsa, il Tesoro rivedeva i criteri di applicazione del balzello, limitandolo allo 0,1% degli attivi. Piazza Affari e, in particolare, i titoli bancari hanno ripreso fiato. Tuttavia, per far dimenticare l’onta ferragostana il governo dovrà buttarsi ancora più anima e corpo sulla riforma dell’Irpef.

Il centro-destra ha vinto le elezioni politiche meno di un anno fa per diverse ragioni, la principale delle quali è il taglio delle tasse promesso ai cittadini. Anche per questo l’annuncio di lunedì sera ha stonato. Se fosse stato un esecutivo di sinistra, avremmo lamentato semmai la forma del provvedimento, ma in questo caso è inaccettabile anche la sostanza. Non puoi essere di destra e mostrarti sorridente nell’imporre una stangata sulle banche. Possono starci antipatiche quanto vogliamo, ma si tratta di aziende del credito che impiegano centinaia di migliaia di lavoratori e che creano ricchezza.

Taglio tasse dal 2024

Il taglio delle tasse di cui si discute da mesi riguarda la riduzione del cuneo fiscale, ovvero dei contributi previdenziali a carico di lavoratori dipendenti e imprese, e la riforma dell’Irpef. Quest’ultima è attesa da anni e la premier Giorgia Meloni ha prospettato un percorso di legislatura per arrivare, se non alla “flat tax”, almeno ad uno sfoltimento sostanzioso delle aliquote.

Dall’anno prossimo, scenderebbero a tre dalle quattro attuali. Erano cinque fino al 2021. Ad oggi, questo è il sistema impositivo:

  • 23% fino a 15.000 euro;
  • 25% da 15.001 a 28.000 euro;
  • 35% da 28.001 a 50.000 euro;
  • 43% sopra 50.000 euro.

L’idea del governo sarebbe di fondere le prime due aliquote Irpef. I benefici riguarderebbero lo scaglione di reddito tra 15.000 e 28.000 euro. Se l’aliquota scendesse dal 25% al 23%, un lavoratore percepirebbe in busta paga fino a 260 euro all’anno. Unitamente al taglio del cuneo fiscale fino a 35.000 euro, ci sarebbe una discesa sensibile dell’imposizione fiscale. Sarebbe solamente il primo passo verso una riforma Irpef più complessiva, che teoricamente porterebbe all’abbattimento di tutte le aliquote entro la fine della legislatura. Ad esempio, il primo scaglione dovrebbe scendere gradualmente al 15%, ben otto punti percentuali in meno di oggi. Per uno stipendio annuo lordo di 15.000 euro, sarebbero 1.200 euro in meno di tasse (-100 euro al mese).

Riforma Irpef richiede taglio spesa pubblica

Questa sarà una battaglia più identitaria che mai per la maggioranza. Il taglio delle tasse è imprescindibile per una coalizione che si definisce “liberale” in economia e che è stata incline a commettere alcuni passi falsi, tra cui l’incidente di questa settimana. Un modo per potenziare il potere di acquisto dei contribuenti, ma che richiederà una politica di riduzione della spesa pubblica strutturale. E poiché nessuno di noi è ingenuo, sappiamo che questo sarà il vero nodo per la maggioranza, come lo è stato per chiunque in passato.

La parte difficile sarà trovare le coperture per la riforma Irpef nell’ordine di diverse decine di miliardi di euro. Senza una revisione seria del bilancio statale, resterà solo un buon proposito. Ma gli elettori non perdonerebbero tentennamenti. La stessa abolizione del reddito di cittadinanza è avvenuta secondo la logica di uno scambio: minori sussidi in cambio di tasse più basse sul lavoro. Già dai prossimi mesi gli elettori vorranno vedere una prima contropartita per il rilancio dell’economia e dell’occupazione.

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