Bisogna essere davvero bravi per capirci qualcosa su come e quante tasse si paghino in Italia in base al reddito. Ogni anno che passa, le cose si complicano. La giungla di norme ed eccezioni si amplia e lo stesso lavoro di un commercialista diventa sempre più farraginoso. L’urgenza di una riforma fiscale è diventata impellente. Anche con l’ultima manovra finanziaria si sedimenteranno norme nuove su norme preesistenti già poco comprensibili. Parliamo di IRPEF, l’imposta sui redditi delle persone fisiche.

E’ la principale fonte di gettito per lo stato italiano con 200 miliardi di euro all’anno, all’incirca l’11% del PIL.

Grosso modo, il 55% dell’IRPEF è pagata dai lavoratori dipendenti, il 30% dai pensionati e il 12% dai lavoratori autonomi. Da notare che ad inizio anni Duemila i pensionati incidevano ancora per poco più del 20%. Nel frattempo, sono cresciuti di numero e i loro redditi hanno retto meglio alle crisi che si sono succedute. Gli assegni sono agganciati all’inflazione, cosa che non accade per i redditi da lavoro, ad esempio. Quanto agli autonomi, pesavano per il 18-19% prima della crisi del 2008. In questi quindici anni, sono diminuiti di 1 milione di unità e, soprattutto, attualmente esistono oltre 1,5 milioni di partite iva rientranti nei regimi di vantaggio.

Riforma fiscale contro la confusione

Perché serve come l’aria una riforma fiscale? Per razionalizzare e semplificare il sistema di pagamento dell’IRPEF ordinaria. Anziché essere l’imposta di riferimento per i redditi, sta diventando sempre più un’imposta da cui sganciare questa e quella categoria di turno. Essendo difficile ridurre le aliquote, dato l’elevato gettito fiscale che essa frutta, il legislatore pensa bene di aumentare le eccezioni alla regola generale.

Con la manovra varata lunedì scorso, la “flat tax” o “tassa piatta” del 15% è stata estesa a tutte le partite iva con fatturato fino a 85.000 euro dai 65.000 euro di quest’anno.

Inoltre, essa sarà applicata anche sul fatturato incrementale rispetto al fatturato più alto dell’ultimo triennio. Prevista allo scopo una franchigia del 5% e un tetto massimo di 40.000 euro.

E buone notizie anche per i lavoratori dipendenti. I premi di produttività saranno tassati al 5% e non più al 10% fino all’importo di 3.000 euro. Al 5% saranno tassate anche le mance. Tutti provvedimenti condivisibili (o meno) singolarmente presi. Il punto è un altro: le regole si moltiplicano, si complicano e nessuno più riesce a capire con certezza quanto pagherà sul proprio reddito. Un po’ come per andare in pensione; ormai, bisogna essere giuslavoristi aggiornati per capire a quale età si può lasciare il lavoro e a quali condizioni.

Serve IRPEF più leggera e unitaria

Una riforma fiscale organica dovrebbe partire dalla premessa di ricondurre la generalità dei redditi delle persone fisiche all’IRPEF, fatta eccezione per qualche categoria come i redditi da capitale e la cedolare secca sugli affitti. In teoria, con una “flat tax” sarebbe possibile sottoporre anche questi all’IRPEF, ma sembra difficile che il legislatore adotterà mai una simile soluzione. Il taglio delle aliquote è il nodo ineludibile per ogni governo. Da esso non si scappa: o le abbassi o sarai costretto a mantenere regimi fiscali alternativi e che vanno moltiplicandosi con il tempo.

In un sistema economico efficiente, dovrebbe risultare indifferente sul piano della tassazione lavorare in proprio o alle dipendenze altrui. D’altra parte, i regimi agevolati sono sorti per abbassare il carico fiscale alle micro e piccole imprese. Tutto giusto, ma nel frattempo la pressione fiscale resta elevata per chi non ha la fortuna di rientrare in quei regimi. Manca una visione d’insieme. Per questo serve la riforma fiscale, che non dovrà limitarsi a sforbiciare qua e là le aliquote, ma anche a semplificare il sistema impositivo, razionalizzandolo e riportando possibilmente all’unità l’imposta a cui sottoporre la generalità dei redditi.

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