Alta tensione in Rai, che le opposizioni hanno ribattezzato TeleMeloni per denunciarne la presunta partigianeria dell’informazione. L’ultimo episodio ad avere acceso gli animi è avvenuto questo lunedì. Il sindacato Usigrai aveva indetto uno sciopero per protestare contro l’assoggettamento della tv di stato all’influenza del governo. I tg sono andati in onda ugualmente, grazie alla mancata adesione di centinaia di giornalisti, molti dei quali iscritti alla neonata Unirai, un sindacato che ha nei fatti infranto il monopolio da diversi decenni di Usigrai, quest’ultimo tradizionalmente su posizioni di centro-sinistra.

Lo sciopero si è rivelato un flop e, aspetto ancora più interessante, ha svelato quanto il monopolio della sinistra tra i sindacati dei giornalisti sia giunto al termine. Qualcuno ha dichiarato che “è caduto il Muro di Berlino” con l’evento dell’altro ieri.

Scambio di accuse in Rai tra sinistra e destra

Da settimane la Rai è nel mirino delle opposizioni. Il Partito Democratico, in particolare, denuncia un’informazione schierata a favore della maggioranza di centro-destra e la “censura” ai danni degli oppositori politici. Il caso dello scrittore Antonio Scurati sul monologo negato per il 25 aprile ha esasperato il confronto. Nei mesi precedenti, lo scontro si era concentrato sulla fuga di fior di giornalisti e conduttori verso reti concorrenti. Da Fabio Fazio a Lucia Annunziata, passando per Corrado Augias e Amadeus, solo per limitarsi ai volti più popolari, c’è una lunga fila di personalità in cerca di nuovi approdi per le rispettive carriere.

La Rai è sempre stata filo-governativa. Negarlo è da stupidi. Fino a un anno e mezzo fa, gli spazi che la tv pubblica riservava all’attuale centro-destra erano risicati, per non dire quasi nulli. Il PD spadroneggiò per anni negli studi di Viale Mazzini, essendo stato quasi ininterrottamente al governo dalla fine del 2011 all’ottobre del 2022.  L’allora opposizione di centro-destra parlò di TeleKabul per definire l’informazione schierata a sinistra, specie su Rai 3.

Sinistra terrorizzata dalle nomine

La verità è che la Rai è una tv pubblica di legislatura in legislatura schifata dagli utenti che hanno votato per i partiti che hanno perso le elezioni. La sinistra è abilissima a montare un caso anche dal nulla, potendosi avvalere di decine e decine di “suoi” uomini schierati nelle redazioni come militari e che fungono da cassa di risonanza per propagandarne visione e interessi. La destra questa abilità storicamente l’ha avuta molto meno. E non perché non disponga di uomini di cultura e dell’informazione, bensì perché questi raramente dimostrino asservimento ideologico. Preferiscono spesso il quieto vivere e dare risalto alle proprie individualità professionali e artistiche, anziché immolarsi nel nome di un partito.

La sinistra cerca di fare quanto più caciara possibile alla vigilia del rinnovo dei vertici Rai, previsto per fine mese. In gioco ci sono la presidenza e il resto del consiglio di amministrazione. Difficile che immagini di poter tenere per sé le posizioni apicali. La speranza sarebbe di creare un clima tale da indurre il Quirinale a costringere il governo a nominare dirigenti più “super partes” possibili. Ma la premier Giorgia Meloni è intenta come non mai a “depiddinizzare” la Rai. E per giungere all’obiettivo sarebbe persino disposta a trattare qualche carica con il Movimento 5 Stelle.

Canone in bolletta senza più fondamento

Il problema è che la Rai è una tv pagata da tutti i contribuenti con il famigerato e odiato canone in bolletta. Perché questo onere, quando decine di tv private concorrenti riescono a finanziarsi con la sola pubblicità e ad offrire programmi anche più apprezzati dall’utenza? Lo scopo sarebbe finanziare il servizio pubblico, così da renderlo qualitativamente migliore di quanto sarebbe se dovesse rincorrere gli ascolti. Un’idea sensata fino a qualche decennio fa, ma che nell’Italia del digitale terrestre e della rete non ha più ragione di esistere.

Il canone Rai è diventato un “pizzo” nella percezione dei più. In effetti, non esiste un solo programma che la tv pubblica manda in onda e che possa definirsi superiore sul piano qualitativo ai prodotti dei gruppi privati.

Ascolti servono per fare cassa

C’è un paradosso nello scontro che si sta consumando tra maggioranza e opposizioni. Le seconde attaccano che gli ascolti Rai siano in calo e lo saranno ulteriormente con la fuga dei volti noti verso il Nove. Ma lo share non dovrebbe rientrare tra gli obiettivi principali di una tv pubblica, altrimenti il canone non avrebbe alcuna legittimità. Il punto è che la Rai è costretta anche a fare cassa con la pubblicità, altrimenti non chiuderebbe un solo bilancio, non diciamo in pareggio, ma neppure lontanamente con perdite sostenibili. Come uscire da queste ambiguità? Con una sana privatizzazione. Il governo dovrebbe mostrare il coraggio di azzerare tutto, non piazzando uomini propri al posto di quelli messi al comando dalla sinistra fino ad oggi, bensì vendendo tutte le reti al privato. Al limite, potrebbe riservarsi un solo canale (Rai 1?) finanziato in tutto o in parte dalla pubblicità e che garantisca livelli minimi di servizio pubblico.

Privatizzazione Rai necessaria, ma molto improbabile

Ma questo non accadrà, né sotto il centro-destra e né sotto la sinistra. Per quanto ogni governo sia andato a casa alle elezioni successive dalla nascita della Seconda Repubblica, pur con una Rai a sé favorevole, il controllo di Viale Mazzini serve per piazzare uomini propri e godere del loro sostegno. La privatizzazione non porta consensi, sebbene l’abrogazione del canone Rai sia un provvedimento popolare. E comporta qualche rischio, ovvero di cedere un asset strategico per l’informazione a uno o più soggetti privati non controllabili e potenzialmente ostili in futuro. In cambio, sarebbe l’unica soluzione definitiva delle polemiche ipocrite di ogni legislatura.

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