Dopo quota 100, il sistema delle pensioni in Italia non dovrebbe tornare subito alla legge Fornero. Il governo Draghi, tramite il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha presentato una proposta per tendere a quota 102 nel 2022 e a quota 104 nel 2023. L’ipotesi consiste nel consentire ai lavoratori di andare in pensione l’anno prossimo con 64 anni di età e 38 di contributi. Dal 2023, invece, si andrebbe in pensione con 66 anni di età e 38 di contributi o con 65 di età e 39 di contributi. Con quota 100, nel triennio 2019-2021 è stato possibile andare in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi.

Se la CGIL ha definito lo schema “una presa in giro per i lavoratori”, non ravvisandovi alcuna flessibilità a favore di una platea vasta di potenziali beneficiari – poche decine di migliaia, stando alle stime – la Lega si è mostrata contraria. Il Carroccio vorrebbe prorogare quota 100 di un altro anno o, in alternativa, che il governo stanziasse a favore del capitolo le stesse risorse previste per il reddito di cittadinanza. Il sussidio è stato potenziato di 1,2 miliardi per il 2022, mentre quota 102 e 104 costerebbero meno di 1,6 miliardi nell’arco dei prossimi tre anni.

Quota 102 e 104, le criticità

Stavolta, lo stesso Giancarlo Giorgetti, voce critica della Lega e ministro dello Sviluppo, si è schierato con il suo partito e ha rassicurato che non si tornerà alla legge Fornero. Ad ogni modo, il premier Mario Draghi avrà il suo bel da fare per mettere insieme istanze contrapposte. Da un lato, uno dei suoi principali alleati gli chiede maggiore flessibilità sulle pensioni, dall’altro l’Europa è iper-critica verso qualsiasi misura che incrementi ulteriormente la spesa previdenziale in Italia, tra le più alte al mondo. Sul piano internazionale, il nostro sistema è giudicato tra i meno sostenibili. E con il Recovery Fund, gli stanziamenti di Bruxelles sono legati proprio alle riforme per migliorare i conti pubblici e il potenziale di crescita dell’economia italiana.

Del resto, l’Italia fortunatamente è insieme al Giappone il paese al mondo con la maggiore aspettativa di vita. Allo stesso tempo, trascorriamo gran parte del tempo a cercare sotterfugi per lasciare il lavoro prima possibile. E quota 100 ha dimostrato che non si liberano posti a favore dei giovani pensionando gli over 60 con qualche anno di anticipo. D’altra parte, è pur vero che destinare quasi 9 miliardi di euro al reddito di cittadinanza, che in buona parte va proprio a persone prossime alla pensione, appare un controsenso. Qui, è questione di lucidità legislativa e di bandierine da sventolare per i partiti.

Tutti delusi da Draghi sulle pensioni

Neppure il PD è soddisfatto della piega che sta prendendo la discussione. Avrebbe voluto rafforzare l’Ape Social, ma le categorie dei lavori riconosciuti come gravosi sarebbero ampliate di poco. Opzione Donna non sarebbe prorogata e né si agirebbe per potenziare la pensione contributiva pura con 64 anni di età e 20 di contributi. Ad oggi, è possibile sceglierla solamente se l’assegno mensile risultasse almeno 2,8 volte il trattamento minimo e se al 31 dicembre 1995 non si avesse neppure un contributo versato. Insomma, misura per pochi.

Sindacati e Lega battono allora il tasto di quota 41: tutti in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Ma sarebbe una misura costosa, che rimpiazzerebbe la pensione anticipata prevista dalla legge Fornero e che oggi consente ai lavoratori dipendenti uomini di andare in quiescenza con 42 anni e 10 mesi e alle donne con 41 anni e 10 mesi. Insomma, manca una visione d’insieme. Nessuno capisce più quando e come andare in pensione e vince di anno in anno chi strilla a voce più alta o chi riesce a farsi rappresentare meglio da questo sindacato o quel partito. Draghi dovrebbe avere la decenza di chiedere “time out”, resettare tutto e porre le basi per un sistema delle pensioni trasparente, semplice e stabile nel tempo.

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