Da quando nelle piazze e per le strade sono esplose le proteste in Myanmar contro il golpe militare dell’1 febbraio scorso, sarebbero stati uccisi 581 manifestanti, di cui numerosi ragazzi. Gli arrestati sarebbero 3.500, di cui 2.700 ancora in carcere. Sono i numeri dell’orrore resi noti dall’Associazione per i Prigionieri Politici e dinnanzi ai quali l’Occidente non intende chiudere gli occhi, comminando o inasprendo le sanzioni contro i singoli responsabili dell’esercito. La Russia di Vladimir Putin punta a tutelare il regime, avvertendo che l’embargo spingerebbe l’ex Birmania verso la guerra civile.

Dall’annullamento delle elezioni all’arresto di Aung San Suu Kyi

Alla fine dello scorso anno, le elezioni politiche nel Myanmar risultano essere state stravinte da Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia e per decenni prigioniera politica della giunta militare, tanto che grazie alla sua resistenza al regime nel 1991 vinse il Premio Nobel per la Pace. Ma sin da subito i militari segnalano di non gradire il plebiscito a favore della donna e dopo diverse smentite annullano l’esito elettorale e arrestano San Suu Kyi con accuse di corruzione. Le proteste in Myanmar dilagano nelle grandi città, inizialmente senza scontri di rilievo con l’esercito. Ma con il passare delle settimane, la tensione aumenta. Il regime impone il blackout informativo e i manifestanti si organizzano in un tam tam clandestino a cui i militari riescono a stento a tenere testa. Inizia il bagno di sangue.

 

Proteste in Myanmar con un obiettivo: colpire l’economia per affossare il regime

Mentre i morti si contano ormai nell’ordine delle centinaia di unità, la resistenza in Myanmar intuisce che l’unico modo efficace per indebolire la giunta militare è colpirla nel portafogli. Nei fatti l’esercito controlla gran parte dell’economia del Paese attraverso alcuni conglomerati industriali, contro cui USA ed Europa studiano il modo di imporre sanzioni che funzionino.

I manifestanti concordano in modo quasi commovente di chiudere le attività per mettere il paese in ginocchio. E così, i funzionari non si presentano nei porti per il disbrigo delle attività burocratiche relative all’import/export, mentre datori di lavoro e dipendenti incrociano le braccia nei supermercati e abbassano la saracinesca. Risultato: i negozi sono chiusi, le merci dall’estero neppure arrivano, quelle prodotte nel paese non partono e l’attività economica risulta praticamente implosa.

La giunta militare capisce quasi subito cosa stia accadendo con le diffuse proteste in Myanmar e nella città di Yangon chiama i dipendenti di una catena di supermercati, la City Mart, per chiedere loro conto della chiusura delle filiali e il nome di chi l’avrebbe organizzata. Alla fine, ricevono l’ordine di comunicare in anticipo qualsiasi decisione in merito agli orari di apertura e di chiusura. Ciò non avrebbe scalfito il sentimento di rifiuto dello staff, il quale crede che non sia accettabile che il regime disponga persino del tempo libero delle persone.

Myanmar: crollo del PIL e fuga dei capitali esteri

La Banca Mondiale stima per quest’anno una caduta del PIL del 10%. Nell’ottobre scorso, prevedeva una crescita del 5,9%. Evidentemente, le proteste nel Myanmar stanno cogliendo nel segno. Il resto lo sta facendo la fuga degli investitori stranieri. Le banche stesse stanno limitando a 200.000 kyat (120 euro) al giorno i prelievi dai bancomat, mentre la banca centrale ha minacciato pesanti sanzioni a quante chiudano gli sportelli senza motivazione.

Fino a qualche mese fa tra le economie asiatiche più promettenti per prospettive di crescita, il PIL nel Myanmar era aumentato a un tasso medio del 5-8% all’anno dal 2012, cioè con la transizione verso la democrazia, pur sotto tutela dai militari, i quali si erano riservati un quarto dei seggi in Parlamento per risultare determinanti rispetto a qualsiasi tipo di equilibrio politico.

E più le proteste in Myanmar andranno avanti, più l’economia tracollerà e maggiore la repressione del regime per non perdere il controllo del potere politico ed economico. Sul paese, tuttavia, la Comunità internazionale appare paralizzata per via della peculiare condizione geopolitica: sostenuto sottobanco da Cina e Russia, l’esercito nei fatti è schermato dalle sanzioni dell’Occidente. Lo scontro interno non è destinato a finire presto, né a concludersi pacificamente.

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