Aung San Suu Kyi resta agli arresti e oggi dovrà presentarsi davanti al giudice per rispondere delle accuse di brogli elettorali. L’1 febbraio scorso, l’esercito ha attuato un colpo di stato, di fatto ponendo fine alla breve e fragile democrazia. Il popolo del Myanmar è sceso in piazza e quotidianamente affolla le strade delle città per protestare contro il golpe, specie giovani sotto i 25 anni. La repressione della giunta militare s’intensifica giorno dopo giorno e solo ieri notte sarebbero stati 400 gli arresti tra i manifestanti.

I morti, ad oggi, sono “solo” due, ma c’è tutta la sensazione che il regime sia pronto al bagno di sangue per difendere con le unghie e con i denti il potere.

Il Myanmar o ex Birmania è stato retto dall’esercito dal 1962 fino al 2010. L’isolamento dal resto del mondo è stato quasi totale, tant’è che oggi l’economia domestica risulta la più povera del sud-est asiatico e tra le più arretrate al mondo con un PIL pro-capite di circa 1.500 dollari all’anno. La popolazione di 54 milioni di abitanti è storicamente divisa tra diverse decine di etnie, tra cui i Bamar incidono per ben il 68% e sono, quindi, di gran lunga quella più numerosa e potente. Il Premio Nobel per la Pace, San Sun Kyi, è una Bamar e gran parte della sua popolarità nel paese la si deve anche a questo dato.

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Dalla dittatura alla fragile democrazia

Ma vediamo in sintesi cosa sia successo nelle ultime settimane. Dopo mezzo secolo di dittatura militare, dicevamo che dal 2011 il regime apre su pressione internazionale a una transizione democratica. E i risultati economici hanno iniziato ad arrivare. Tra il 2011 e il 2017, il paese è cresciuto al ritmo del 7% all’anno. I militari, tuttavia, non hanno mollato affatto il potere. Per Costituzione, detengono il 25% dei seggi in Parlamento.

Inoltre, hanno anche un partito che li rappresenta e che punta a raccogliere nuovi seggi tra quel 75% eletto dai cittadini. Alle ultime elezioni dell’8 novembre scorso, la Lega Nazionale per la Democrazia stravinceva conquistando circa 390 seggi contro una manciata in mano al partito dei Tatmadaw, il nome con cui i militari vengono definiti qui.

Indispettito dalla bruciante sconfitta, l’esercito ha prima minacciato e successivamente sciolto il governo legittimo, arrestandone la leader, già ai domiciliari tra il 1989 e il 2010 per la sua opposizione al regime militare. USA e UE minacciano sanzioni. Washington ha già “congelato” i beni di diversi militari legati al golpe, non consentendo loro l’accesso ai conti e alle proprietà negli USA. Bruxelles potrebbe porre fine al programma “Everything but Arms”, attraverso il quale garantisce al Myanmar di esportare senza dazi e con il sistema delle quote. Secondo Maybank Kim Eng, la crescita nell’anno fiscale 2020/2021 scenderà dal 4,5% atteso al 3%, per il prossimo dal 6% al 4%. Per Fitch, non si andrà oltre il 2% nel biennio, giù dal 5,6% stimato per il 2020-2021 e dal 6% per il 2021-2022. In ogni caso, nessuno al momento prevede recessione per l’economia birmana.

In effetti, più dei due terzi delle esportazioni si hanno in Asia, un terzo nella sola Cina. E l’integrazione economica con Pechino si è accentuata negli ultimi anni con il Myanmar ad essere divenuto un riferimento molto importante per la cinquantina di paesi che compongono la nuova Via della Seta, un piano con cui i cinesi vorrebbero potenziare le relazioni commerciali e infrastrutturali con il resto dell’Asia e fino ad approdare in Europa. Le relazioni con la Cina si sono fatte più strette dopo che l’Occidente ha allentato le sue con San Suu Kyi, accusata di avere ignorato il genocidio ai danni della minoranza Rohingya.

Gli occhi della Cina sul Myanmar

Ma il Myanmar si trova in una posizione cruciale per attirare quella produzione che sta delocalizzandosi dalla Cina in conseguenza dell’aumentato costo del lavoro e del “reshoring” in corso dopo la pandemia. In particolare, qui hanno sede molte aziende tessili, le cui esportazioni incidono ormai per un quinto del totale, ammontando nel 2019 a 4 miliardi di dollari. Anche per questa ragione, l’Occidente per il momento non vorrebbe calcare la mano con le sanzioni, cercando di tenere in serbo un possibile rimpiazzo della Cina nel caso in cui servisse spostare la produzione dal Dragone. Questo stato, poi, si colloca in una posizione strategica, dividendo la Cina dalla regione indiana e consentendo alla prima di avere un accesso diretto all’Oceano Indiano.

Pechino non ha condannato il golpe e, in fondo, vorrebbe sfruttarlo a suo favore per segnalare al resto del mondo che non accetterà interferenze di alcun genere nella sua sfera d’influenza e ai suoi confini. D’altra parte, i militari hanno sciolto il governo per non perdere i privilegi acquisiti in oltre mezzo secolo di controllo assoluto del potere. Attraverso conglomerati economici come Myanmar Economic Corporation e Myanmar Economic Holding, si stima che controllino almeno 140 società del paese, tra cui la lucrosa industria mineraria, specie delle gemme. La Lega di San Suu Kyi in questi anni di governo ha aperto agli investimenti esteri, tanto che sono in corso di approvazione progetti per 3,5 miliardi di dollari, i quali rischiano adesso di saltare. Alle ultime elezioni, però, aveva promesso più esplicitamente di liberalizzare l’economia, sottraendo il controllo di molte società all’esercito. Con ogni probabilità, proprio la prospettiva di perdere immense ricchezze accumulate in decenni di gestione socialista dell’economia ha spinto i generali al colpo di stato.

La situazione interna è aggravata dall’emergenza Covid. Con oltre 140 mila casi e 3 mila morti, gli assembramenti di queste settimane per protestare contro il regime rischiano di far collassare il sistema sanitario.

Sarà il pretesto con il quale i militari cercheranno di stroncare le rivolte. L’Occidente resta per il momento guardingo e si limita a condannare con le parole la fine della breve democrazia birmana. L’esercito promette una transizione di un anno, il tempo di riscrivere la Costituzione, chiaramente in modo da accrescere la propria influenza, quali che saranno in futuro i risultati elettorali. Ma dopo i fatti di Hong Kong, sembra che Pechino stia orchestrando una repressione crescente nell’area, che presto coinvolgerebbe Taiwan, la provincia ribelle mai associatasi alla Repubblica Popolare e contro la quale negli ultimi mesi sono aumentate le minacce esplicite cinesi.

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