Secondo le previsioni del commodity strategist della banca danese Saxo Bank, Ole Hansen, il prezzo dell’oro nel 2023 raggiungerà i 3.000 dollari l’oncia. Per Frank Holmes di US Global Investors, sarebbe pure poco: il metallo arriverà anche a 4.000 dollari entro 12-18 mesi. E dire che il 2022 non è stato un anno brillante per il bene rifugio per eccellenza. Le quotazioni sono tornate appena ai livelli di inizio gennaio, oscillando intorno ai 1.800 dollari. Certo, in euro e altre principali valute mondiali l’apprezzamento c’è stato, dato che il dollaro si è rafforzato nel corso dell’anno.

Ad ogni modo, la delusione resta. In un periodo di alta inflazione, l’oro dovrebbe performare molto bene.

C’è da dire che ad avere pesato sul trend negativo c’è stato proprio l’apprezzamento del dollaro, il quale rincara il costo per gli acquirenti non americani. Per non parlare dell’esplosione dei rendimenti obbligazionari. Essendo un asset senza cedola, esso subisce la concorrenza dei bond.

Corsa all’oro delle banche centrali

Ma il 2023 può diventare un anno d’oro nel senso letterale del termine, almeno stando alle previsioni. Ad esempio, nel terzo trimestre le banche centrali hanno acquistato 393,3 tonnellate nette, il dato più alto dalla fine di Bretton Woods. In dieci mesi, i loro acquisti sono risultati di 704 tonnellate. Per la prima volta dal 2019, poi, la Banca Popolare Cinese ha aggiornato il suo dato sulle riserve auree, salite di 32 tonnellate a 1.980 tonnellate.

Il 2021 è stato il dodicesimo anno di acquisti netti consecutivi da parte delle banche centrali per complessivi 5.692 tonnellate. Includendo i numeri di quest’anno, dovremmo salire ad almeno 6.400 tonnellate. Cosa spiega questo trend? Di certo, con la crisi finanziaria mondiale del 2008 si è rotta la narrazione in base alla quale l’oro fosse diventato un asset obsoleto, destinato ad essere soppiantato dagli investimenti finanziari e in valuta. Nel primo decennio del nuovo millennio, ad esempio, la Banca Nazionale Svizzera era stata un venditore netto pesante di metallo.

Chissà con quali tormenti, a posteriori.

Previsioni oro dopo pandemia e guerra

Tra pandemia e guerra, le notizie a favore dell’oro non hanno fatto che aumentare. In primis, perché sembra che la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trenta anni sia arrivata al termine. Le lunghe catene di produzione sono risultate ingestibili dinnanzi a imprevisti e tensioni geopolitiche. Il loro accorciamento presuppone la rilocalizzazione delle produzioni in prossimità dei mercati di sbocco, dove verosimilmente i costi saranno maggiori. Di fatto, si va componendo uno scenario di reflazione strutturale.

E le sanzioni dell’Occidente contro la Russia hanno svelato il falso mito del dollaro porto sicuro per chicchessia e sempre. Da un momento all’altro, i capitali di stati “nemici” possono essere bloccati e sequestrati. Se così, viene già meno l’impulso per magnati e fondi sovrani di esportare i loro capitali in un Occidente a rischio per via di possibili screzi tra governi. Ed ecco che nell’uno e nell’altro caso, la soluzione sembra essere quella di puntare sull’oro come bene rifugio.

La Russia possiede non a caso circa 2.300 tonnellate di oro, quinta al mondo dopo Stati Uniti, Germania, Italia e Francia. I cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) nel totale arrivano a circa 6.315 tonnellate. Paesi come la Turchia comprano metallo anche in piena crisi della bilancia dei pagamenti. Insomma, il pianeta non solo non segnala alcuna volontà di abbandonare l’oro, ma anzi torna a puntarci con maggiore forza e nella consapevolezza dell’assenza di alternative credibili a lungo termine.

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