Il terzo pacchetto di sanzioni contro la Russia varato da USA ed Europa alla fine di febbraio non ha precedenti nella storia moderna per potenza delle stesse e dimensioni del destinatario. L’Occidente sta cercando nei fatti di tagliare fuori Mosca dai mercati internazionali, relegarla ai margini del pianeta come un paria e soffocarne l’economia. Solo così, sperano i leader di Europa e Nord America, il potere politico del presidente Vladimir Putin vacillerebbe davvero. Alla lotta in difesa della libertà e della democrazia si sono unite moltissime multinazionali, che stanno sospendendo gli affari sul territorio russo con l’obiettivo di far capire alla popolazione che rischiano di tornare indietro di decenni se sosterranno un Cremlino guerrafondaio.

Le sanzioni alla Russia si stanno mostrando efficaci nel mordere la sua economia. Il PIL quest’anno potrebbe crollare del 10%, stando ad alcune analisi. Già il rublo è arrivato a perdere il 50% con l’invasione dell’Ucraina, sebbene nelle ultime sedute abbia mostrato una forte ripresa con l’annuncio di Putin che accetterà i pagamenti delle forniture di gas solamente in valuta locale e non più in dollari ed euro.

Ma queste sanzioni stanno per la prima volta seminando il dubbio tra gli stessi addetti ai lavori che possano nel tempo rivelarsi un boomerang per chi le ha comminate, in particolare per l’America. Non stiamo parlando delle ritorsioni russe, a dire il vero modeste, dato che Mosca praticamente esporta quasi solo materie prime e continua a vendere all’Occidente “nemico” come unica fonte di accesso alle valute straniere forti. Il pericolo è ben maggiore e strutturale.

Come funzionano le sanzioni americane?

L’America è solita imporre sanzioni ai suoi nemici. Un caso piuttosto famoso riguarda l’Iran. A causa della sua corsa al nucleare per scopi bellici, nel 2012 l’amministrazione Obama impose l’embargo contro le sue esportazioni, di petrolio comprese.

Teheran si vide impossibilitata dall’oggi al domani di vendere greggio all’estero. La sua economia cadde in sofferenza. E perché nessun cliente all’infuori dell’America ha potuto o voluto comprare barili iraniani? In conseguenza delle cosiddette “sanzioni secondarie”. Esse prevedono che qualsivoglia entità pubblica o privata che intrattenga relazioni economiche con un paese e per attività oggetto di embargo, non potrà accedere al mercato dei capitali americano. In altre parole, non potrà ricevere finanziamenti e altri servizi da banche e istituzioni finanziarie a stelle e strisce.

Poiché l’America è il mercato più ricco e grande del mondo, non esiste alcun soggetto pubblico o privato a cui sfiori anche solo l’idea di sfidare l’embargo. Sarebbe un suicidio economico. Per quanto Cina e altri stati asiatici da anni sostengono che le sanzioni secondarie americane siano “illegali”, in realtà non lo sono per un motivo ovvio: l’America non vieta alcunché a società, banche e governi all’infuori dei suoi confini nazionali; semplicemente avverte loro che nel caso in cui infrangessero il suo embargo, subirebbero conseguenze sul piano delle relazioni economiche. Come dire: “chi parla con il mio nemico non entra a casa mia”. Avrei tutto il diritto di pensarlo e metterlo in pratica.

Sanzioni alla Russia e rischio boomerang

Questo apparato di misure punitive verso un paese funziona finché è piccolo. Quando inizia ad essere delle dimensioni della Russia, le cose si complicano. Puoi intimare ai governi terzi di non avere a che fare con l’Iran o il Venezuela, ma con la Russia non è affatto semplice. Essa ha un’economia di medie dimensioni, qualcosa come 1.500 miliardi di dollari, un terzo in meno dell’Italia con una popolazione di due volte e mezza più grande. Il fatto è che questo sterminato territorio da oltre 17 milioni di km quadrati produce molte materie prime, da cui dipendono numerosi paesi, in Asia, Africa ed Europa.

Dal gas al petrolio, dalla farina ai fertilizzanti, dall’alluminio al palladio, risulta quasi impossibile per moltissime economie di piccole e medie dimensioni fare a meno della Russia.

Per questo l’America sta trovando più difficile isolare Putin. A meno di non volere imporre sanzioni verso decine e decine di società, banche e governi di mezzo mondo, dovrà rassegnarsi ad accettare che la Russia continui a intrattenere relazioni commerciali e finanziarie con Asia, Africa e forse anche Sud America. Ma anche tollerare che ciò accada, non libererebbe Washington dal rischio più grande, ovvero quello di non essere più percepita come un “porto sicuro” per i capitali dell’intero resto del mondo. Queste sanzioni alla Russia, specie quelle che “congelano” le sue riserve valutarie, stanno indisponendo numerosi stati, tra cui Arabia Saudita. Per quale motivo gli americani (e gli europei, nel caso specifico) si arrogano il diritto di sequestrare attività finanziarie di uno stato sovrano? Stando così le cose, non sarebbe più opportuno almeno diversificare le mete di destinazione di tali attività per sottrarle alle possibili mire occidentali?

Capitali meno globali, inflazione su

Le sanzioni alla Russia hanno confermato la sensazione di molti stati, secondo la quale i capitali non sarebbero al sicuro all’infuori del proprio blocco geopolitico di appartenenza. Questo incentiverà nei prossimi anni il rimpatrio degli asset delle riserve ufficiali e l’imposizione di limitazioni alle esportazioni di capitali. La liquidità sempre abbondante sui mercati occidentali potrebbe non essere così scontata in futuro. Fattori come tassi d’interesse e variazioni dei tassi di cambio inizierebbero a giocare un ruolo nell’attirarla o meno, così come accade nel resto del pianeta. E il governatore della Federal Reserve di St.Louis, James Bullard, ha invitato a scontare tassi d’inflazione strutturalmente più elevati in futuro, a causa della minore globalizzazione. Egli propugna tra l’altro tassi USA non inferiori al 3% entro fine anno.

In altre parole, le pesanti sanzioni alla Russia starebbero indisponendo una parte consistente del mondo e accelerando quella deglobalizzazione intravistasi già con la pandemia, con le multinazionali che cercano di accorciare le loro catene produttive. Non solo: è il ruolo del dollaro ad essere minacciato da un simile scenario. Lasciamo stare per il momento il pagamento del gas in rubli; l’America rischia di alienare fin troppe economie terze, con la conseguenza di spingerle ad accettare valute di riferimento alternative. Il caso dell’India, economia di dimensioni doppie di quella russa, è scioccante in tal senso. Il governo Modi ha stretto un accordo con Mosca per regolare gli acquisti di petrolio in rubli, agganciando le quotazioni allo yuan. C’è da dubitare che siffatte sanzioni alla Russia saranno replicate in futuro con economie di dimensioni simili o maggiori. Troppo alto il rischio di vedersele ignorate dal resto del mondo o di intaccare il dollaro come valuta di riserva mondiale.

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