Partecipando al Consiglio europeo di giovedì e venerdì, la premier italiana Giorgia Meloni ha lanciato l’allarme sulla crisi economica in Tunisia. Ha fatto appello al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per l’erogazione il prima possibile del prestito già stanziato lo scorso anno. Ha spiegato che, nel caso in cui la situazione degenerasse nello stato nordafricano, in partenza verso l’Europa vi sarebbero 900.000 migranti. E vien da sé che l’Italia non sarebbe in grado di ospitarli tutti. Lampedusa dista a soli 130 km dalle coste più settentrionali tunisine, per cui il fenomeno ci coinvolge per primi e direttamente.

La presa posizione di Meloni non è né isolata, né la prima del genere. Prima di lei il commissario agli Affari esteri, Josep Borrell, aveva parlato di rischi di un’ondata migratoria massiccia nel caso in cui l’economia tunisina collassasse del tutto. Tunisi ha replicato a tali parole sostenendo che fossero “esagerate”. Il problema, invece, esiste. Pochi giorni fa, la Banca Mondiale ha “congelato” gli aiuti al paese dopo le dichiarazioni del presidente Kais Saied, secondo cui vi sarebbe un piano per trasformare la Tunisia “unicamente in uno stato africano, allentando i suoi rapporti con il mondo islamico e arabo”. Il riferimento era stato ai migranti subsahariani che arrivano nel paese.

La Tunisia è stata l’epicentro della Primavera Araba. Nel 2010 è da qui che si solleva un moto di proteste contro i regimi autoritari per chiedere migliori condizioni di vita. E per circa un decennio era anche stato l’unico paese ad avere offerto segnali di speranza nel senso di una maggiore democrazia interna, così come anche di un aumento delle libertà civili e individuali. Lo scorso anno, Saied scioglieva il Parlamento, un atto che per molti è stato alla stregua di un colpo di stato. Il malcontento della popolazione contro il governo era già altissimo, ma da allora non ha fatto che montare.

Crisi Tunisia, prestito FMI resta in forse

L’inflazione è salita sopra il 10% e la disoccupazione resta sopra il 15%, mentre gli occupati non arrivano al 45% della popolazione in età lavorativa. La crisi del lavoro, specie tra i giovani, aveva spinto negli anni passati l’Unione Europea a stanziare aiuti a favore della Tunisia. Tra l’altro, il paese aveva beneficiato delle quote di esportazioni di olio senza dazi. Un modo per sostenere lo sviluppo dell’economia locale. Non è servito granché, se è vero che la crisi della Tunisia è esplosa in tutta la sua drammaticità.

L’FMI ha stanziato 1,9 miliardi di dollari, qualcosa come il 4% del PIL. Chiede in cambio misure di austerità per tagliare l’alto deficit fiscale, al 7,7% del PIL nel 2022. E il debito pubblico si aggira intorno all’85%. Senza riforme economiche, la Tunisia non otterrà prestiti e collasserà. Le sue riserve valutarie ammontano a 7,6 miliardi di dollari, corrispondenti a meno di quattro mesi di importazioni. Anche per questo gli scaffali dei negozi sono semi-vuoti, segno della carenza diffusa di beni per effetto del taglio delle importazioni.

Saied è, però, l’alleato più prezioso per l’Europa nella strategia di contenimento degli sbarchi presso le coste italiane. Ecco perché Meloni fa pressioni perché possa ottenere al più presto gli aiuti dell’FMI. D’altra parte, dovrà dimostrare di realizzare le riforme da un lato e di rispettare i diritti umani dall’altro. Non c’è solo la questione migranti a tenere banco. Decine tra oppositori politici, giornalisti, funzionari e sindacalisti sono state arrestate con l’accusa di “terrorismo”. C’è il rischio che la fragile democrazia tunisina si trasformi in un regime vero e proprio. Come se dall’era Ben Alì non si fosse mai usciti del tutto.

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