L’olio tunisino torna a rinfocolare la polemica tra Italia e Unione Europea, dopo la richiesta del governo nordafricano a Bruxelles di prorogare la possibilità accordata al suo paese nel 2016 di esportare nella UE 35.000 tonnellate senza dazi all’anno per due anni, che si aggiungono alle 56.700 già fissate da un accordo del 1995. In due anni, quindi, la Tunisia ha potuto esportare per complessive 70.000 tonnellate di olio senza dazi in Europa, anche se risulta che ne abbia usufruito per appena 2.500 tonnellate.

Ma gli ulivicoltori del paese si sono riorganizzati in fretta e sarebbero pronti già quest’anno a raddoppiare la loro produzione, invadendo i nostri mercati con 200.000 tonnellate di olio. Il governo italiano protesta contro la sola ipotesi di una proroga dei dazi zero, che due anni fa fu decisa dall’Europarlamento per sostenere l’economia tunisina, colpita dal crollo del turismo, a sua volta legato agli attacchi terroristici di matrice islamista subiti nei mesi precedenti. Tunisi è strategicamente importante per l’Europa sul piano geopolitico, ma i produttori italiani si sono sentiti sacrificati sull’altare di interessi più grandi di loro.

Olio tunisino senza dazi fino al 2017, tra proteste e polemiche

Partiamo dai dati. L’Italia nel 2017 ha prodotto 429.000 tonnellate di oro, ben al di sotto delle 537.000 consumate. E se si considera che ne abbiamo esportate 236.000, si capisce come l’offerta domestica sia nettamente inferiore alla domanda. Il gap viene colmato per 2/3 dalla Spagna, primo produttore mondiale e le cui esportazioni hanno ormai superato quelle italiane, la cui quota è crollata in 25 anni dal 46% al 36% contro il 53% spagnolo. Le nostre importazioni ammontano nell’ordine di 500.000 tonnellate all’anno e la quota tunisina ancora si rivela marginale, anche se in fortissima crescita. Solo nei primi 3 mesi del 2018, le importazioni dal paese nordafricano sono esplose del 400% a 20.000 tonnellate. Se il trend fosse confermato, l’olio tunisino peserebbe per quasi un sesto del totale delle importazioni.

Ora, il ministro dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, promette di difendere il made in Italy contrastando la possibile proroga della UE. Fonti europee, però, fanno sapere che non sarebbe nelle ipotesi, cercando così di stemperare sul nascere un clima che rischia di avvelenarsi, anche perché, a differenza di due anni fa, stavolta nemmeno il PD, che pure fu il partito più favorevole all’esenzione dai dazi, intenderebbe favorire più le importazioni di olio tunisino. L’aria a Roma è cambiata. A Palazzo Chigi non c’è più né Matteo Renzi e né Paolo Gentiloni, bensì il premier Giuseppe Conte, alla guida di un governo “sovranista”. Tuttavia, una domanda sorge spontanea: se la produzione nazionale risulta inferiore al fabbisogno e, quindi, siamo costretti a importare olio dall’estero, non sarebbe meglio per il consumatore che ciò avvenisse senza balzelli?

Le ragioni degli ulivicoltori italiani

La risposta è più complicata di quella che saremmo portati a dare istintivamente. I 250 milioni di ulivi italiani, appartenenti a 825.000 aziende agricole, registrano costi ben più elevati di quelli che devono sostenere i produttori tunisini. Se questi ultimi sarebbero capaci di produrre a 2-3 euro al litro, i primi non sarebbero in grado di farlo per meno di 6-7 euro. Il problema è che man mano che il nostro mercato viene inondato di olio straniero, i nostri ulivicoltori vanno sempre più in affanno, non riuscendo a sostenere la concorrenza. Contrariamente a quanto è avvenuto negli ultimi anni in Spagna, nel nostro Paese non sono stati realizzati sufficienti investimenti sul fronte della tecnologia e le dimensioni medie ridotte degli appezzamenti di terreno hanno aggravato il problema. Risultato? Abbandono degli ulivi da parte degli agricoltori per dedicarsi a colture più redditizie. Ciò sta riducendo progressivamente la produzione nazionale, allontanandola dalla media storica delle 500.000 tonnellate e, soprattutto, sta rendendo ancora più difficile la ricerca di una soluzione.

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Per una risposta alla crisi del comparto, servono investimenti massicci, che si giustificherebbero finanziariamente solo con produzioni quanto più grandi possibili, ma se nel frattempo queste si riducono per l’abbandono delle coltivazioni da parte degli ulivicoltori, frustrati dalla concorrenza straniera, il destino dell’olio italiano sembra quasi ineluttabile, pur presentando il maggiore numero in Europa di DOP (43) e IGP (4) per l’extra-vergine. Del resto, è pur vero che le importazioni ci servono, in molti casi, per creare le miscele necessarie a imbottigliare oli per sbocchi domestici e le esportazioni. Tuttavia, scandalosa appare la possibilità di fregare il consumatore, imbottigliando olio tunisino o spagnolo e spacciandolo per italiano, non essendo obbligatorio riportare l’etichetta con la provenienza. Ancora una volta, a Roma si teme che a Bruxelles passino sopra le nostre teste per barattare interessi, che poco o nulla hanno a che fare con l’Italia. E, infatti, se i commissari smentiscono che abbiano in mente di prorogare i dazi zero sull’olio tunisino, non è forse per andare incontro alle nostre richieste, bensì per inserire tali esenzioni all’interno di un più generale e strutturale accordo commerciale con la Tunisia, teso ad abbattere le barriere tariffarie. Nulla di male, se non fosse che sinora sia stato il nord Europa ad essere passato all’incasso, entrando nel mercato degli appalti pubblici di Tunisi. Tutto sulle spalle degli agricoltori italiani.

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