Il prezzo del petrolio è tornato a sfiorare nella seduta di ieri i 90 dollari al barile, toccando quasi gli 89. I venti di guerra soffiano sempre più forti in Europa sulla crisi ucraina. Gli USA hanno inviato altri 8.500 militari al confine con la Russia per dissuadere Vladimir Putin dall’invadere l’Ucraina. La tensione è ai massimi livelli da giorni e cresce il timore che, oltre al gas, anche l’offerta globale di greggio nelle prossime settimane possa ridursi a causa dell’eventuale evento bellico.

La Russia non è l’unico fronte aperto per l’America. L’Iran spera di strappare un nuovo accordo sul nucleare, che gli consenta di tornare ad esportare petrolio. D’altra parte, i ribelli Houthi nello Yemen da esso sostenuti hanno lanciato attacchi missilistici contro gli Emirati Arabi Uniti, riducendo le probabilità di un’intesa tra Teheran e Washington. Bisogna aggiungere che la Russia, pur non facendo parte dell’OPEC, ha da tempo stretto con l’organizzazione un accordo per concordare i livelli di produzione, dando vita insieme ad altri stati produttori esterni al cosiddetti OPEC+.

Stando alla tabella di marcia decisa lo scorso anno, l’OPEC+ dovrebbe aumentare l’offerta di petrolio di 400.000 barili al giorno ogni mese, al fine di ridurre gradualmente il maxi-taglio annunciato nella primavera di due anni fa con lo scoppio della pandemia. Con le tensioni in atto, non è detto che la Russia voglia contribuire a mantenere l’equilibrio del mercato petrolifero. Insomma, una serie di fattori che inducono a temere che l’offerta globale possa contrarsi o, comunque, non tenere il passo all’aumento della domanda.

Petrolio e rischio stagflazione

I dati parlano chiaro: rispetto al gennaio 2021, questo mese il Brent ci sta costando il 53% in più. La corsa dell’inflazione rischia di accelerare, quando già risulta salita ai massimi da decenni presso un po’ tutto il mondo avanzato (e non solo).

Per capirne l’impatto, basti pensare che il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, ha prospettato la necessità di rivedere il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da circa 230 miliardi al 2026, in quanto l’esplosione dei costi delle materie prime starebbe fermando i cantieri. In pratica, le imprese che si sono aggiudicate le gare per la realizzazione dei lavori, non starebbero in molti casi riuscendo a sostenere i più alti costi fronteggiati. Uno scenario in stile anni Ottanta, quando buona parte delle opere incompiute fu dovuta all’impossibilità per lo stato di inseguire l’inflazione a due cifre.

In sintesi, il petrolio a 90 e forse presto a 100 dollari rischia di provocare la stagflazione: i prezzi al consumo salgono, mentre l’economia si ferma. Anche questo fu un fenomeno degli anni Settanta e inizio Ottanta, scatenato dalle crisi petrolifere del 1973 e del 1979. Sembra la storia che si ripete, sebbene i livelli attesi d’inflazione siano stavolta molto più bassi. O almeno così credono e sperano banche centrali e mercati finanziari. Il Fondo Monetario Internazionale ha già tagliato le stime di crescita per l’economia mondiale. E per l’Italia si tratta di una bella batosta.

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