Nei primi due mesi dell’anno, lo stato italiano ha incassato 4,5 miliardi di euro in più di IVA grazie all’inflazione. Guarda caso, questa è stata la cifra messa a disposizione dal governo Draghi per il taglio delle accise esteso al 2 maggio prossimo. Il dato rivela come la crescita impetuosa dei prezzi al consumo possa nel breve periodo portare qualche sollievo sul fronte del debito pubblico. E’ la matematica, bellezza!

Come si calcola il rapporto debito/PIL, tanto monitorato dai mercati e dagli stessi cittadini per capire quanto bene o male siamo messi sul piano dei conti pubblici? Si mette al numeratore lo stock del debito, al denominatore il prodotto interno lordo.

Quest’ultimo è dato dalla moltiplicazione dei beni e servizi prodotti nell’anno dall’economia e i rispettivi prezzi. Dunque, se si verifica un aumento dell’inflazione, il PIL nominale (denominatore) aumenta. Di conseguenza, il rapporto debito/PIL diminuisce.

L’impatto a breve dell’inflazione sul debito pubblico

Non solo. Come abbiamo scritto all’inizio, più inflazione tende ad equivalere a maggiori entrate fiscali. Non solo l’IVA, bensì pure le imposte sui redditi esitano un gettito più alto. Questo è dato dal fatto che i redditi – ergo l’imponibile – aumentano in termini nominali. Non è un caso che storicamente l’inflazione sia stata una delle tre strade con cui abbattere il debito pubblico, assieme alle politiche di austerità fiscale (tagli alla spesa e/o aumenti delle tasse) e alla rinegoziazione dei titoli con i creditori.

Stando così le cose, avremmo trovato il Sacro Graal per sdebitarci. Non corriamo di fantasia. In primis, perché l’aumento dell’inflazione comporta anche la lievitazione dei rendimenti dei titoli di stato, cioè del costo d’indebitamento. Vero è, però, che se la banca centrale lasciasse che i rendimenti sovrani crescano meno dell’inflazione, ovvero che i rendimenti reali diminuiscano, per lo stato il bilancio sarebbe ugualmente positivo.

In un certo senso, è quanto la BCE stia facendo in questi mesi, fingendo di ignorare l’esplosione dei prezzi. Qualcuno dovrà pur pagare il costo della pandemia, no?

Il boomerang nel lungo periodo

In realtà, il problema è più complesso. L’inflazione è un male per l’economia. Essa si traduce in perdita del potere d’acquisto e aumento delle disparità sociali. In altre parole, con il tempo le famiglie si ritrovano obbligate a tagliare i consumi non strettamente necessari. La minore domanda riduce l’offerta, cioè proprio il PIL. In questi mesi, poi, sta accadendo anche che le imprese stiano riducendo la produzione per l’impossibilità di tenere testa al boom dei costi delle bollette. In effetti, l’inflazione importata è la peggiore di tutte, perché non deriva dal dinamismo dei consumi interni, bensì da shock esterni, come i rincari delle materie prime. Dunque, un peso sia per le imprese che per i consumatori.

Questo significa che l’inflazione con il tempo finisce con il comprimere la crescita economica, cioè il PIL reale. Probabile che il PIL nominale stesso ne risulti depresso, per cui il rapporto debito/PIL non se ne gioverebbe più di tanto. Al contrario, i problemi che l’alta inflazione provoca rischiano di creare le condizioni negative per la risalita del rapporto medesimo. Ad esempio, non è detto che i governi si rivelino capaci di tenere a bada la spesa pubblica. Il malcontento popolare per il carovita potrebbe spingerli ad aumentarla, specie a fronte dell’illusione che il gettito sarà certamente maggiore. Non è casuale neppure che generalmente inflazione e deficit si tengano spesso assieme, perché la prima finanzia la seconda e la seconda richiede la prima. Un abbraccio mortale, che ci rievoca quanto accaduto meno di un secolo fa, con le conseguenze devastanti per le successive generazioni.

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