In America, dopo un paio di settimane di “lockdown” migliaia di cittadini si sono riversate in strada e hanno reclamato e, in molti casi, ottenuto la fine o l’allentamento delle restrizioni introdotte per affrontare l’emergenza Coronavirus. In Italia, quando è passato già un mese e mezzo abbondante dalla chiusura imposta ad attività, negozi e uffici e all’introduzione di stringenti limitazioni alla libertà di movimento, di indignazione popolare nemmeno l’ombra. Sui social, s’inneggia al governo per chiedere misure ancora più repressive e lo sconcerto per il mancato decollo della Fase 2 dal 4 maggio, emerso ieri con la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, è rimasto confinato a pochi.

La Fase 2 di Conte non c’è e l’economia italiana rischia di chiudere per sempre

Centinaia di migliaia di attività economiche rischiano seriamente di chiudere per sempre, se è vero che non potranno riaprire fino agli inizi di giugno, quando le stesse modalità della riapertura rappresenteranno per molte di esse un test di sopravvivenza difficile da superare, tra tavoli da tenere distanziati e divieti di assembramenti. Eppure, la protesta che ci si aspetterebbe in casi del genere non c’è ancora. Sarà che siamo ancora tutti rinchiusi a casa, sarà anche che le difficoltà economiche arriveranno proprio quando torneremo a una vita più normale e ci renderemo conto di non avere denaro a sufficienza per tirare avanti come prima, ma le categorie produttive non stanno facendo sentire ancora oggi la loro voce.

Ceto produttivo umiliato

Un qualche malcontento lo si coglie dalle dichiarazioni del nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che lasciano trasparire irritazione verso il governo per una chiusura imposta in misura scriteriata rispetto all’estero. Ma come mai se anche a Berlino si sono registrate proteste partecipate contro restrizioni molto più blande che in Italia, da noi nulla di tutto questo sta avvenendo? La risposta va ricercata tra le pieghe del nostro bilancio pubblico, che destina quasi la metà della ricchezza annualmente prodotta alla spesa pubblica.

Circa 800 miliardi all’anno se ne vanno per mantenere lo stato sociale, ma anche il mastodontico settore statale.

La Confindustria di Bonomi è una voce isolata nell’Italia del neo-statalismo

La spesa pubblica è per definizione trasferimento di ricchezza a favore di alcune fasce della popolazione. E questa ricchezza viene creata dai ceti produttivi, vale a dire l’insieme di imprese e dei lavoratori dedito alla produzione di beni e servizi. In Italia, gli occupati formalmente risultano poco più di 23 milioni, di cui 3 milioni sono dipendenti pubblici, cioè retribuiti dallo stato. Dunque, soltanto 20 milioni sono le persone che in teoria possono affermare di non derivare il loro reddito dallo stato. Rappresentano un terzo esatto della popolazione residente, mentre i restanti 40 milioni vivono a loro carico.

Ebbene, in un’economia dove pochi creano ricchezza all’infuori del perimetro statale, non puoi aspettarti grande libertà di pensiero e di indipendenza rispetto ai desiderata del governo. Questo nei fatti finisce per controllare l’opinione pubblica, attraverso quella galassia di sussidi, elargizioni e trasferimenti pubblici, che garantiscono la sopravvivenza dei più. E paradossalmente, la voce di chi rende possibile che questa politica assistenziale abbia luogo si affievolisce, rimanendo oscurata dalle urla di una maggioranza che riesce a vivere sulle spalle di pochi e che pretende per un puro fatto numerico di avere sempre ragione, umiliando i ceti produttivi a colpi di auto-certificazioni richieste anche solo per uscire di casa, invettive social al grido di #restiamoacasa e veri e propri insulti all’indirizzo di chi osa reagire all’oscurantismo.

Lockdown come stile di vita

In una fase di emergenza come questa, l’assistenzialismo è emerso nitido come metro di governo. Anziché puntare a creare le condizioni per una ripartenza e sostenere nel frattempo lavoratori e imprese danneggiati dalle restrizioni, il governo ha elargito aiuti a pioggia, rivelatisi poco efficaci per sostenere il reddito delle categorie realmente colpite dalla crisi sanitaria, ma ad oggi sufficienti per tenere a bada gli umori dell’opinione pubblica.

Per quelle fasce della popolazione inattive, restare a casa e farsi mantenere dallo stato è diventata nella sfortuna una congiuntura benedetta, uno stile di vita a cui si sono adeguate e abituate all’istante, perché comodo.

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La voce di chi rischia di non alzare più la saracinesca si sente sempre meno e poco importa se senza questo tessuto imprenditoriale non sarà possibile proseguire a lungo con lo spandi e spendi dello stato. Anzi, s’intravede già la tentazione del governo di giocarsi al carta della lotta all’evasione fiscale, superata l’emergenza, spremendo ulteriormente le partite IVA per finanziare sussidi e prebende sempre più generosi a favore di chi ha deciso che il lavoro nero, quello pubblico di stampo burocratico o la nullafacenza siano il proprio stile di vita. Inutile confrontarsi con questa parte dell’Italia estranea alla cultura del lavoro, perché fino a quando sarà mantenuta dai sacrifici di quei pochi che ancora tirano la carretta non capirà mai le loro ragioni e preferirà illudersi che i soldi crescano sugli alberi.

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