Una dichiarazione resa dal presidente americano Donald Trump lunedì sera ha confermato i sospetti di questi mesi sulle reali intenzioni della Casa Bianca. Egli ha sostenuto di non essere “entusiasta” del rialzo dei tassi USA da parte del governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, il quale ha definito essere certo “non uomo dal denaro a basso costo”. Eppure, il banchiere centrale più potente del mondo è stato nominato proprio da Trump a capo dell’istituto meno di un anno fa, in sostituzione della più “colomba” Janet Yellen, che il presidente aveva attaccato in campagna elettorale per la sua politica monetaria eccessivamente accomodante, a suo dire un modo per dare una mano all’amministrazione Obama.

I toni sono cambiati con la vittoria, ma l’inimicizia tra i due rimase. Sempre l’altro ieri, poi, il presidente ha attaccato Cina ed Europa, ree di manipolare i rispettivi tassi di cambio.

Immediata la reazione sui mercati valutari, con il dollaro a indebolirsi per la quarta seduta consecutiva e mediamente scendendo contro le altre divise ai minimi da quasi due settimane. In lievissimo rialzo, invece, i rendimenti dei Treasuries, confermando quanto abbiamo spiegato negli ultimi mesi, ovvero che i bond sovrani americani risentirebbero positivamente del “super dollaro” e negativamente dell’indebolimento del cambio, nonostante i movimenti di quest’ultimo riflettano le aspettative sui tassi USA.

Cosa vuole di preciso Trump? Un euro e uno yuan più forti. Tra Cina ed Europa, ogni anno l’America accumula disavanzi commerciali nell’ordine di circa 530 miliardi di dollari, troppi per la sua pur florida economia. Il tycoon ritiene che le esportazioni a stelle e strisce siano colpite proprio dall’eccessiva forza del dollaro e per questo utilizza da mesi la minaccia dei dazi per indurre i principali partner commerciali a scambi “fair”, oltre che “free”. Nel caso di Pechino, l’amministrazione Trump segue la linea, pur con una retorica molto più accentuata, delle due precedenti a guida George W.

Bush e Barack Obama, entrambe ad avere lamentato la fissazione dei tassi di cambio in maniera distorta rispetto a quanto avverrebbe in un regime di libera fluttuazione sul mercato.

I cambi mandano un segnale preoccupante su chi perderebbe la ‘guerra’ dei dazi

Obiettivo: euro e yuan più forti

Per quanto da tre anni a questa parte la People’s Bank of China abbia cercato di venire incontro alle richieste di Washington, adottando una fissazione giornaliera della parità più in linea con i fondamentali, la mano visibile del governo resta e lo yuan non può ancora certo dirsi una valuta lasciata alle libere forze del mercato. Il discorso si complica per l’Eurozona, in cui 19 stati condividono un’unica moneta, emessa dalla BCE, che detiene il controllo della politica monetaria. Qui, i tassi di riferimento sono ancora azzerati e quelli sui depositi overnight fissati al -0,4%, mentre proseguono fino alla fine dell’anno gli acquisti di bond con il “quantitative easing”, tutte misure destinate formalmente a combattere la bassa inflazione, ma che Trump giudica un modo scorretto per indebolire l’euro e sostenere le esportazioni dell’area.

Paradossalmente, nonostante oggetto dei suoi attacchi sia la Germania, accusata di esportare troppo negli USA, Berlino sarebbe ben contenta di varare una stretta monetaria quanto prima, temendo un surriscaldamento dei prezzi domestici e l’alimentazione di una pericolosa bolla del credito. Tuttavia, il governatore Mario Draghi non sembra ancora nelle condizioni di propendere con nettezza dalla parte di un innalzamento del costo del denaro, avendo a che fare con un’unione monetaria assai squilibrata al suo interno e con mercati finanziari altrettanto differenziati tra di loro. Dunque, o euro e yuan si rafforzano decisamente nei prossimi mesi o verranno annunciato nuovi dazi da parte della Casa Bianca.

Del resto, rispetto al periodo pre-crisi il cambio euro-dollaro ha perso circa il 20% e lo yuan si è indebolito del 10% in 5 anni.

E se Maometto non va alla montagna? Sarà la Fed ad allentare la stretta in corso, rendendosi relativamente meno restrittiva delle attese nel prossimo futuro rispetto alle attese, finendo per indebolire il dollaro. Non aspettiamoci, però, un arresto del rialzo dei tassi, almeno non nell’immediato. Il costo del denaro salirà verosimilmente come da previsioni fino alla fine dell’anno in area 2,50%, salvo lasciare il posto a una sola stretta o nessuna nell’anno prossimo, quando Trump punterà a indebolire il dollaro a tal punto da spronare significativamente le esportazioni prima del 2020, quando correrà per un secondo mandato. Considerando che nel frattempo la BCE si troverà costretta almeno ad avviare la stretta per allora, il risultato potrebbe arrivare per la Casa Bianca.

I mercati non credono alla guerra commerciale scatenata dai dazi di Trump

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