Arabia Saudita e Russia sono in “guerra” tra di loro sul petrolio ed entrambe ne stanno ingaggiando un’altra parallela contro gli USA. Il mancato accordo sul taglio della produzione tra OPEC e Russia ha fatto crollare le quotazioni del greggio lunedì, con il Brent sceso fino a un minimo inferiore ai 32 dollari al barile e il WTI americano a 27 dollari. Ieri, si è registrato un parzialissimo recupero, ma resta un pesante -45% quest’anno, dovuto essenzialmente al tracollo della produzione in Cina per l’epidemia da Coronavirus.

Crolla il petrolio sulla “guerra” russo-saudita: ecco cosa succede

Anziché restringere nuovamente l’offerta, i russi hanno spiegato chiaro e tondo all’alleato saudita che non intendono più sostenere i prezzi internazionali, in quanto ciò favorirebbe le estrazioni americane. Da quando i due produttori hanno sottoscritto un accordo nel novembre del 2016 per ridurre complessivamente l’offerta di quasi 1,8 milioni di barili al giorno, gli USA hanno aumentato la loro offerta quotidiana di 4,5 milioni di barili (+50%), salendo al loro record storico di 13 milioni.

E così, Mosca ritiene che bisogna puntare a conservare le quote di mercato, altrimenti si finisce per agevolare i piani espansionistici americani in Asia, dove le compagnie a stelle e strisce stanno ritagliandosi una fetta crescente della clientela più promettente al mondo. Ma questa appena iniziata è una guerra che né i russi e né i sauditi sembrano essere adeguatamente attrezzate per poter combattere a lungo contro l’America di Donald Trump. Partiamo da una ovvietà: il comparto petrolifero negli USA è in mano a società private, i cui livelli di produzione vengono fissati solamente sulla base di decisioni di mercato, non con finalità pubbliche.

La relativa forza dell’America

Le compagnie americane riuscirebbero mediamente a produrre coprendo totalmente i costi già a quotazioni in area 45 dollari al barile. E negli anni si sono rivelate molto capaci nel tagliare i costi e diventare più efficienti.

Al contrario, la compagnia petrolifera saudita Aramco riesce a produrre in attivo già a pochi dollari al barile, ma poiché finanzia ancora gran parte della spesa pubblica nazionale, a Riad servono quotazioni stimate in area 83-84 dollari per quest’anno per chiudere il bilancio pubblico in pareggio. Dunque, per ogni barile attualmente estratto a 35 dollari, Riad subisce una grave perdita e che nemmeno può compensare con un cambio più debole, avendolo ancorato al dollaro con un “peg” fisso a 3,75.

Vero è che i sauditi dispongono ancora di circa 500 miliardi di dollari di riserve valutarie, ma con un deficit che non accenna a diminuire a livelli rassicuranti, atteso per quest’anno a non meno del 6,50% del pil (circa 50 miliardi di dollari), non può permettersi azioni destabilizzanti, anche perché un eventuale deflusso massiccio di capitali colpirebbe proprio le riserve e minaccerebbe il “peg”. Quanto ai russi, il bilancio 2020 è stato redatto su quotazioni medie a 42 dollari e Mosca ha un debito pubblico bassissimo, nonché un cambio flessibile che le consente di compensare le minori quotazioni. Inoltre, dispone di assets liquidi per circa 150 miliardi di dollari con il suo fondo pensionistico sovrano, per cui sembrerebbe al riparo da possibili intemperie.

La corsa all’oro di Putin ha triplicato le riserve in Russia in 10 anni 

Le debolezze saudite e russe

In realtà, già ieri il rublo crollava del 9% contro l’euro, risentendo dell’andamento del petrolio, tanto che ieri la Banca di Russia ha iniziato a vendere assets in valute straniere per sostenere il cambio. E quando le quotazioni del Brent precipitarono tra il 2014 e il 2016, questo arrivò a perdere quasi il 60% contro il dollaro, facendo schizzare l’inflazione fino a un massimo del 17% e mandando l’economia russa in recessione. Lo stesso regno, nel caso in cui i livelli delle sue riserve crollassero velocemente, si vedrebbe costretto a sganciare il rial dal dollaro, di fatto svalutandolo e provocando una drastica perdita di potere d’acquisto dei sudditi, con tutto il malcontento che ne deriverebbe.

In alternativa, dovrebbe accelerare i piani di diversificazione delle entrate, aumentando alcune forme di tassazione sui redditi e sui consumi, anche in questo caso alimentando il malcontento e mandando in malora l’economia.

Non stiamo sostenendo che l’America sia invulnerabile al tracollo delle quotazioni e che Russia e Arabia Saudita non abbiano un certo potere di ricatto nei suoi confronti, essendo rispettivamente il secondo produttore e il primo esportatore di greggio al mondo. Solo che le economie e i bilanci statali di queste ultime dipendono ancora eccessivamente dalla materia prima, contrariamente agli USA. Se non una vera crisi fiscale, rischiano contraccolpi finanziari pesanti e l’impoverimento delle famiglie. Infine, livelli di “breakeven” in Russia sostanzialmente doppi di quelli sauditi impongono ai secondi una strategia meno aggressiva e duratura nei confronti degli americani, i quali restano oltretutto alleati geopolitici fondamentali nello scacchiere mediorientale.

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