Il governo di Angela Merkel starebbe mettendo a punto un piano da 50 miliardi di euro per contrastare l’arrivo della recessione. L’allarme è stato confermato nei giorni scorsi dalla Bundesbank, secondo cui il pil tedesco dovrebbe contrarsi anche nel terzo trimestre, dopo il -0,1% accusato nel secondo. La maggioranza al Bundestag a Berlino ha già deciso che taglierà per il 90% dei casi la “Soli”, sovrattassa che grava sui contribuenti delle regioni occidentali, e che finanzierà un piano di investimenti pubblici “ambientali”.

I 50 miliardi, ove fossero realmente spesi e tutti in un anno, equivarrebbero a nemmeno l’1,5% del pil e l’aspetto più interessante è che non minaccerebbero la politica dello “Schwarze Null”, il pareggio di bilancio perseguito con estrema tenacia dall’ex ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble.

A dirla tutta, l’obiettivo è stato più che centrato dal 2014. Da quell’anno, il debito pubblico federale si è contratto già di 200 miliardi di euro, grazie ai surplus fiscali, che entro quest’anno dovrebbero ammontare anch’essi all’incirca sui 200 miliardi. In valore assoluto, il debito sovrano della Germania sarà cresciuto entro la fine del 2019 di circa 420 miliardi rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi globale. Tuttavia, il pil nominale ha più che doppiato tale aumento, segnando nel frattempo +850 miliardi. Di conseguenza, il rapporto debito/pil tedesco non solo non risulta cresciuto, ma partendo dal 65% del 2007 e raggiungendo l’apice dell’82% nel 2012, quest’anno scenderà sotto il 60%.

La Germania è sulla strada per azzerare gli interessi sul suo debito pubblico

La tendenza negativa dell’Italia

Tutt’altra storia per l’Italia. Il nostro pil nominale è cresciuto dal 2007 di soli 160 miliardi, arretrando del 4,5% in termini reali. A fronte di questo impoverimento, ci siamo indebitati per 760 miliardi in più. Pertanto, se il rapporto debito/pil nel nostro Paese superava di poco il 100% prima della crisi, quest’anno si attesterà in area 133%.

Senza volere approfondire le ragioni di questo andamento dicotomico, possiamo senza dubbio affermare che la Germania ha fatto la formica dopo avere avuto la necessità di spendere nei primi anni di crisi, dovendo salvare il suo collassato sistema bancario e sostenere le famiglie in difficoltà. L’Italia non ha potuto e saputo fare lo stesso.

Da noi, l’economia non ha beneficiato di alcun sostegno evidente nel periodo nero della crisi, poiché i nostri margini fiscali disponibili risultavano bassi già allora. Ciò ha fatto collassare i redditi più di quanto non sia avvenuto nella gran parte d’Europa, privando lo stato delle entrate fiscali sufficienti per mettere in ordine i conti pubblici e varare misure fiscali espansive. Un avvitamento, che tutt’oggi pesa sul deficit, in sé abbastanza contenuto – programmato al 2% del pil per il 2019 contro l’oltre 3% della Francia – ma comunque superiore di gran lunga al tasso di crescita della nostra economia, praticamente nullo.

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Il fattore “credibilità” sui mercati

Già prima della crisi di ormai più di un decennio fa, i Bund riscuotevano ben maggiore fiducia sui mercati rispetto ai BTp. Successivamente ad essa, hanno ampliato le distanze, come segnala lo spread, anche e, soprattutto, grazie alla diversa condotta fiscale tra Germania e Italia. La prima avrebbe potuto spendere di più o incassare di meno dai suoi contribuenti, ma ha deciso di optare per la via dell’austerità, tanto criticata all’estero, quanto accettata volentieri in patria. Grazie a questa strategia, ha centrato in pochissimi anni l’obiettivo incredibile di scendere a un livello di indebitamento inferiore a quel 60% del pil indicato nel Patto di stabilità e ribadito nel Fiscal Compact, disponendo già oggi di margini per spendere e tagliare le tasse, così da frenare o arrestare del tutto la recessione in corso.

Questa condotta non fa che accrescere il solco rispetto alle altre grandi economie europee, Francia inclusa. I capitali si sentono molto rassicurati da un governo fiscalmente con il braccino corto e che se solo volesse avrebbe a disposizione decine di miliardi per accelerare la crescita del pil, magari puntando sugli investimenti pubblici. Per questo, gli chiedono interessi molto bassi per prestargli denaro, anzi oggi si mostrano disposti a pagare Berlino per avere il “privilegio” di essere suoi creditori. Un’anomalia, che cozza con i rischi a cui sono esposti i nostri BTp e che ci impediscono anche solo di teorizzare ad alta voce una qualche manovra espansiva.

Il fatto è che la credibilità non la acquisisci da un giorno all’altro. L’Italia non si è comportata affatto male nell’ultimo decennio, ma semplicemente in partenza appariva già molto meno affidabile dei principali partner dell’area, a causa di un’eredità politica, economica e finanziaria assai negativa. Instabilità dei governi, tendenza a spendere in eccesso rispetto alle entrate (e pure male sul piano quantitativo), decenni di crescita sfrenata dei prezzi prima dell’ingresso nell’euro, assenza di riforme per rendere appetibile il business e inefficienze statali piuttosto evidenti, specie al sud. Tutti fattori che fanno percepire, purtroppo, il nostro debito pubblico come meno sostenibile, aldilà dei numeri in sé. E il circolo vizioso tra alti rendimenti, margini fiscali nulli e crescita zero non sembra finire mai.

Ecco perché il debito pubblico italiano con questi numeri ci condanna all’austerità 

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