Le molestie sessuali stanno facendo discutere l’America da giorni, dopo che il produttore cinematografico Harvey Weinstein dell’omonima Weinstein Company è stato accusato di essere responsabile di tali atti da decine di attrici, alcune delle quali molto famose, tra cui l’italiana Asia Argento, che in un’intervista rilasciata al New Yorker, parla, addirittura, di vera violenza sessuale subita. Mentre l’Accademia per i Premi Oscar ha già votato per espellere il boss di Hollywood e il presidente francese Emmanuel Macron medita di ritirargli la Legion d’Onore, il mondo politico a Washington non sembra molto scosso dalla vicenda, o meglio, finge che l’argomento non lo riguardi affatto.

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Eppure, Weinstein non era un uomo qualunque, bensì un grande sostenitore del Partito Democratico, uno tra i finanziatori di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali dello scorso anno e già sponsor di Barack Obama. Le accuse contro Weinstein, che è stato mollato dalla moglie e che è precipitato in pochi giorni dall’Olimpo all’inferno di Hollywood, segnerebbero per diversi commentatori la fine della dinastia dei Clinton. Non a caso, dopo un silenzio assordante, la ex coppia presidenziale si è decisa a condannare pubblicamente l’uomo, annunciando che devolveranno in beneficenza le donazioni ricevute da questi.

Difficile cavarsela con poche parole. I Clinton avevano mandato da Weinstein persino loro figlia Chelsea per uno stage, tanto stretti erano stati i legami con il produttore cinematografico caduto in disgrazia. E il Washington Post, che certo non è un quotidiano ostile ai democratici, ha sparso sale sulla ferita, sostenendo che Bill Clinton ricevette da Weinstein una donazione da 10.000 dollari alla fine degli anni Novanta, come contributo per sostenere le spese processuali sul caso Monica Lewinsky, la stagista della Casa Bianca, che fece scoppiare il famoso “sexygate”, il quale rischiò di travolgere la presidenza e che forse è concausa non secondaria dello scarso appeal di cui gode da tempo la moglie Hillary tra gli americani.

Le accuse a Trump

Si capisce meglio, forse, quant’è accaduto ieri, quando è uscita la notizia che Summer Zervos ha citato in giudizio il presidente USA, Donald Trump, con l’accusa proprio di molestie sessuali per un paio di abbracci sgraditi e una palpata al seno. La donna sostiene di averle subite nel 2006, quando partecipò al reality “The Apprentice”, in cui Trump era il boss e doveva scegliere il candidato o la candidata da cui farsi affiancare nel ruolo di manager. Una versione italiana è andata in onda per qualche anno con Flavio Briatore, amico di Trump, nelle vesti del capo. Non che le accuse di Zervos siano nuove. Già un anno fa, in piena campagna elettorale, le aveva pubblicamente esternate, ricevendo per questo una querela da parte dell’attuale inquino della Casa Bianca.

Sembra incredibile, ma a scorrere le prime pagine dei giornali e la home dei principali siti d’informazione americani, si scopre che la notizia sulla Zervos non desterebbe grande interesse in patria, mentre riceverebbe maggiore copertura all’estero. Come mai in un’America, dove un presidente rischiò l’impeachment meno di 20 anni fa per un rapporto sessuale extraconiugale, oggi come oggi nemmeno fa notizia che il presidente sia stato citato in giudizio per molestie? A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, soleva affermare il sette volte premier italiano Giulio Andreotti. In effetti, il caso Weinstein e quello Zervos potrebbero non essere slegati tra loro.

E’ la fine della dinastia dei Clinton?

Se è vero che il primo abbia messo nei guai i Clinton sul piano mediatico, il secondo offre ai democratici un’arma per evitare che i repubblicani non ne cavalchino l’onda.

A dirla tutta, c’è la leggera sensazione che le accuse a Trump siano state utilizzate non per fare rumore (non ne parla quasi nessuno negli USA), bensì come avvertimento: “guardate che ci sarebbe materiale per trascinare nel fango anche la Casa Bianca”, sembrerebbe minacciare un anonimo Mister X. D’altra parte, su questa tregua si era evitato in campagna elettorale di farsi la guerra tra i due schieramenti. I democratici non hanno dato spazio alle accuse della Zervos e Trump non aveva ricordato agli elettori i trascorsi di Bill. Certo, non siamo dinnanzi a un 1-1 e palla al centro. Da un lato, le accuse a Trump colpirebbero direttamente la sua persona, se trovassero riscontro giudiziario, mentre i Clinton non si sarebbero resi colpevoli di nulla, se non di avere preso soldi per fini elettorali (e giudiziari) da un individuo poco raccomandabile.

Tuttavia, la caduta di Weinstein supera in potenza per clamore e conseguenze le accuse di una starletta mancata a Trump. Il solo fatto che un quotidiano molto amico dei democratici cerchi di evidenziare il legame tra la potente dinastia politica americana e il produttore sarebbe il segnale che nella sinistra a stelle e strisce si starebbe consumando una faida per archiviare definitivamente l’era dei Clinton. Nel partito dell’asinello non si può perdonare alla ex First Lady di essere stata in grado di perdere contro un candidato considerato così battibile. Dopo lo shock – non ancora del tutto smaltito, come dimostra l’ultimo libro della candidata democratica dal titolo “What happened” (“Cos’è successo”), che pare abbia fatto litigare di brutto la coppia – sono iniziate le manovre per detronizzare Hillary, senza che ciò getti discredito su ciò che resta dei democratici. E le molestie sessuali sarebbero diventate l’accusa con cui tappare la bocca ad “amici” e avversari.