Il 2021 sarà ricordato sui mercati come l’anno del caro petrolio dopo il tracollo provocato dalla pandemia. Le quotazioni del Brent sono esplose da poco più di 50 a 85 dollari, apprezzandosi di oltre il 60%. Gli effetti si notano. Ad essersi impennati non sono solo i prezzi del carburante, ma anche delle bollette di luce e gas, nonché della generalità dei beni, a causa della lievitazione dei costi di trasporto. Sui giornali si parla apertamente da mesi di rischio stagflazione, un termine che per la prima volta fu usato negli anni Settanta per descrivere la compresenza di inflazione e stagnazione dell’economia.

L’anno chiave fu allora il 1973. A seguito della guerra arabo-israeliana, nota come dello Yom Kippur, l’OPEC chiuse i rubinetti del petrolio agli USA per punirli del sostegno offerto allo stato di Israele. Nel giro di niente, il prezzo sui mercati s’impennò. Da una media di 3,60 dollari all’anno per il biennio 1971-’72, si arrivò a 9,35 dollari nel 1974. E la crescita fu incessante fino al 1980, quando le quotazioni culminarono a oltre 37 dollari. In pratica, erano decuplicate nel giro di 7 anni.

Le conseguenze per tutto l’Occidente furono devastanti: inflazione spesso a due cifre e bassa crescita, se non veri periodi di recessione. Servirono i programmi di lotta all’inflazione delle amministrazioni Reagan negli USA e Thatcher nel Regno Unito per archiviare un lungo ciclo di stagflazione. Stiamo rischiando di fare la fine di quegli anni? La risposta è negativa, perché molte cose sono cambiate nell’ultimo mezzo secolo, come vedremo.

Caro petrolio, differenze con gli anni Settanta

Anzitutto, per quanto in forte crescita, le quotazioni del petrolio non sono raddoppiate, triplicate o decuplicate rispetto ai livelli pre-Covid. Sono schizzati dai bassi livelli toccati durante la pandemia, ma in confronto a un anno ordinario come il 2019, risultano cresciute di un terzo.

Non è poco, ma nulla di paragonabile con quanto avvenne negli anni Settanta. Secondariamente, oggi consumiamo molti meno barili di petrolio rispetto ad allora. Nel 1973, il PIL mondiale valeva circa 22.500 miliardi di dollari, mentre quest’anno dovrebbe salire a circa 88.000 miliardi. In sostanza, è quasi quadruplicato. Nello stesso periodo, però, i consumi di greggio sono passati da 55 a 98 milioni di barili al giorno, cioè meno che raddoppiati.

Il dato si deve essenzialmente alla crescita trainata perlopiù dai servizi presso le economie avanzate, un settore che richiede minore energia rispetto all’industria. E per quanto in calo, l’incidenza di tali economie ricche sul PIL mondiale è ancora preponderante. Ad esempio, gli USA consumavano nel 2019 la media di 19,5 milioni di barili al giorno, a fronte dei 17,3 del 1973. Un aumento del 13%, che si confronta con il +250% di crescita reale del PIL. C’è anche una questione di efficienza nei più bassi consumi odierni. La tecnologia ci consente di utilizzare le risorse con maggiore parsimonia e di fare ricorso a energie alternative e meno inquinanti.

In generale, quindi, oggi riusciamo a produrre oltre il doppio della ricchezza con la stessa quantità di petrolio di quasi mezzo secolo fa. Infine, l’OPEC non fa più la paura di prima. All’epoca dell’embargo, pesava per il 63% dell’intera produzione mondiale, per cui risultò allora impossibile rimpiazzarla nel breve e medio periodo. Oggi, invece, incide per meno di un terzo del totale. Tra l’altro, le estrazioni negli USA prima del Covid arrivarono a oltre 13 milioni di barili al giorno, 4 in più del 1973. Questo non significa che il caro petrolio non faccia male, ma non ai livelli degli anni Settanta. Almeno, non da solo.

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