Il governo Meloni incontra i sindacati questo mercoledì sul dossier caldo delle pensioni. Urge trovare una soluzione per impedire che scatti lo “scalone” dopo fine anno con la permanenza in vigore della sola legge Fornero. Poiché il 31 dicembre Quota 102, Opzione Donna e Ape Social scadono tutti, per andare in pensione da gennaio sarebbe necessario attendere i 67 anni di età o possedere almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne). In questi ultimi giorni, il ministro del Lavoro, Marina Elvira Calderone, starebbe optando in misura crescente per Quota 41, anche per venire incontro alle richieste della Lega.

Con Quota 41 i lavoratori potrebbero andare in pensione se in possesso di 41 anni di contributi. Tuttavia, al fine di contenere i costi nella fase iniziale, il requisito dovrebbe essere accompagnato per qualche anno anche da un secondo di tipo anagrafico: almeno 61-63 anni di età. Di fatto, Quota 41 sarebbe una sorta di Quota 102, 103 o 104 mascherata. E del resto non sarebbe possibile fare di più. Le ristrettezze dei conti pubblici impediscono interventi radicali. Sui 22 miliardi di euro rinvenuti aumentando il deficit-obiettivo al 4,5% del PIL per il 2023, almeno 15 serviranno a contrastare il caro bollette.

Ma c’è anche la questione sensibilissima del taglio del cuneo fiscale a tenere banco e a legare le mani all’esecutivo. Calderone ha promesso una misura in tal senso “in tempi brevi”. Confindustria e sindacati concordano sull’assoluta necessità di aumentare gli stipendi dei lavoratori abbassando la tassazione che vi grava. Il punto è uno: il cuneo fiscale è la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dall’impresa e la busta paga percepita dal lavoratore. Esso è composto da IRPEF e relative addizionali, più i contributi previdenziali.

Quota 41 e contributi INPS

A questo punto, a meno che il governo Meloni voglia ritoccare le aliquote IRPEF, l’unico modo per ridurre il cuneo fiscale sarà di agire sui contributi INPS: 23,81% dello stipendio lordo a carico dell’impresa, 8,89% a carico del lavoratore.

Ma un’operazione del genere priverebbe l’INPS di entrate con cui pagare le pensioni. L’ammanco dovrebbe essere coperto dallo stato. Non solo, con contributi previdenziali minori il lavoratore percepirà una pensione più bassa con il metodo contributivo. Dunque, siamo dinnanzi a un “trade-off” tra occupazione oggi e pensioni future?

Di certo c’è che Quota 41 restringe enormemente i già scarsissimi margini di manovra del governo Meloni sul taglio del cuneo fiscale. L’esigenza di rendere più flessibile l’uscita dal lavoro esiste e non può essere derubricata a bandierina di partito. Tuttavia, la priorità emergenziale per l’esecutivo oggi non può essere questa, bensì di sostenere l’occupazione. E il taglio del cuneo fiscale appare la strada principale per arrivarci. Solo così ciò che i lavoratori percepirebbero in meno sull’assegno a causa dei minori contributi versati sarebbe (più che) compensato da un maggiore tasso di occupazione e carriere più lunghe.

Se Quota 41 sarà, l’unica penalizzazione sull’assegno che i beneficiari accuserebbero sarebbe legata al coefficiente di trasformazione per la parte contributiva. Sarebbe forse il caso di colpire anche la parte retributiva per tendere a una misura a costo zero a carico dello stato. Aumentare ulteriormente la spesa per le pensioni non è saggio.

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