Il ministro del Lavoro, Marina Elvira Calderone, è alle prese con un difficile negoziato con i sindacati sulla riforma delle pensioni. Nulla che possa essere paragonata alla situazione in Francia, anche perché da noi si tratta, al contrario, di rivedere la legge Fornero. Una volta per tutte il governo Meloni intende porre fine alle numerose eccezioni a favore di questa e quella categoria dei lavoratori. Ne è scaturito un sistema confuso, farraginoso e costoso da mantenere. Gli alleati della premier puntano su misure bandiera.

Matteo Salvini chiede Quota 41 per tutti, Silvio Berlusconi le pensioni minime a 1.000 euro al mese.

Un primo intervento c’è già stato a favore degli assegni più bassi. L’anno scorso, le pensioni minime erano di 525,38 euro. Quest’anno, salgono a 571,61 euro grazie a una iper-rivalutazione del 120% rispetto al tasso d’inflazione del 7,3%. Per coloro che hanno raggiunto i 75 anni di età, poi, sono state ricalcolate a 600 euro, circa +970 euro all’anno. Anche l’anno prossimo saliranno di più dell’inflazione di un altro 2,7%.

Il problema delle pensioni minime è certamente sentito. Stando ai dati di Itinerari Previdenziali, nel 2020 vi erano complessivamente oltre 6 milioni di pensionati che percepivano meno di 1.000 euro al mese. Dunque, la proposta di Berlusconi riguarda una platea non così esigua come si pensa. Il costo dell’operazione, tuttavia, sarebbe enorme. Alberto Brambilla, esperto di previdenza, lo stima in quasi 28 miliardi all’anno, poco meno dell’1,5% del PIL. E questo sarebbe l’ennesimo sconquasso per i conti dell’INPS, che prevede per quest’anno un saldo negativo di 9,7 miliardi di euro a causa della maxi-rivalutazione dovuta all’alta inflazione.

Pensioni minime a 1.000 euro non per lavoratori giovani

Il problema di lungo periodo sarebbe persino più grave. Prendete un dipendente del settore privato. Percepiva nel 2020 una pensione media lorda di 16.786 euro all’anno. E questo dopo avere versato mediamente tra 35 e 40 anni di contributi.

Perché mai continuare a farlo, quando le pensioni minime sarebbero fissate a circa il 75-80% dell’importo medio ricevuto? Sarebbe un incentivo ad evadere la contribuzione, vale a dire a lavorare in nero. Tra l’altro, si amplierebbe la frattura intergenerazionale. Le pensioni minime sono spesso confuse con gli assegni sociali. Sono due trattamenti diversi. Le prime sono frutto di un’integrazione voluta dal legislatore per aiutare i pensionati con redditi bassi. A patto che questi ultimi non superino il doppio del trattamento minimo.

Tuttavia, questa integrazione è prevista per i soli assegni liquidati con il metodo retributivo e misto. Gli assegni liquidati per intero con il metodo contributivo, cioè per coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996, non beneficeranno dell’integrazione al minimo. Questo significa che le pensioni minime tra qualche decennio spariranno, a meno che il legislatore non interverrà per estenderne l’esistenza alle nuove generazioni di pensionati. Ma con una spesa previdenziale già altissima, mancano i margini di bilancio, non la volontà politica in sé.

In altre parole, i lavoratori di oggi, già costretti in futuro ad andare in pensione con assegni inferiori a quelli dei pensionati attuali e, soprattutto, del passato, si caricherebbero di un costo di cui non sarebbero mai beneficiari. Le pensioni minime a 1.000 euro al mese rischiano di premiare i lavoratori che hanno versato poco, che hanno evaso il Fisco e i contributi INPS o coloro che hanno lavorato per pochi anni. Un’ingiustizia che sorgerebbe da un pur apprezzabile tentativo di porre rimedio a un problema serio di giustizia sociale.

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