I pensionati italiani non sono sfortunati come tendiamo a credere, anzi risultano tra i più fortunati al mondo. A ribadirlo sono anche gli ultimi dati dell’OCSE, che confermano una condizione “anomala” per l’Italia da diversi punti di vista. Anzitutto, per le pensioni spendiamo troppo, vale a dire il 16,2% del pil (nel 2015) contro una media nell’area dell’8,5% e dietro solamente al 16,9% della Grecia. Ma il vero problema forse non è nemmeno questo, quanto le iniquità che il nostro sistema previdenziale tende a generare.

Un esempio? Chi entra oggi nel mercato del lavoro in Italia andrà in pensione a 71 anni, 5 anni in più rispetto alla media OCSE e in linea solo con Danimarca, Estonia e Olanda.

E oggi stesso, un over 65 nel nostro Paese tende a percepire redditi grosso modo simili alla media della popolazione, mentre nel resto dell’area si registra un -13%. Insomma, i pensionati in Italia non sono quelli che se la passano male, anche perché escono dal lavoro ancora in media 2 anni prima, vale a dire a 62 anni contro i 64 anni all’estero (e i 71 dei giovani italiani di oggi), pur a fronte di un’età pensionabile ufficiale di 67 anni, la più alta in vigore tra i paesi OCSE. A fronte di leggi apparentemente restrittive, infatti, diverse le scappatoie per andare prima in quiescenza, da ultimo quota 100, che l’istituto con sede a Parigi nei fatti boccia.

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E’ il lavoro che manca in Italia

Ma se si allarga lo sguardo dalle pensioni, si coglie un sistema economico-produttivo alla frutta e che rende insostenibile la previdenza. In Italia, si lavora mediamente 31,8 anni, quando nell’intera OCSE la cifra sale a 36,2 anni. Come mai? Ce lo spiega l’organismo internazionale, quando ci dice che il tasso di occupazione nel nostro Paese risulta del 31% tra i ragazzi di età 20-24 anni e del 54% tra i 55-64 anni, nettamente inferiore al 59% e al 61% rispettivamente nell’area.

In soldoni, si entra nel mercato del lavoro dopo, si sta di meno e si percepisce la pensione più a lungo, per cui si versano pochi contributi in relazione agli assegni incassati durante la vecchiaia. Perlomeno, questo è accaduto sinora, perché del domani non v’è certezza.

Sì, perché non si regge in piedi un sistema che non crea occupazione e che stanga i redditi con un’aliquota elevatissima per pagare le pensioni, trovandosi costretto anche a staccare il primo assegno prima che nel resto d’Europa per la condizione di disagio in cui verserebbero altrimenti centinaia di migliaia di over 60 sprovvisti di un lavoro. A queste esigenze rispondono quota 100 e ancor prima le infinite clausole di salvaguardia e più strutturalmente le pensioni anticipate (ex anzianità): a rendere meno doloroso possibile gli anni che separano i sessantenni (o anche più giovani) all’età ufficiale per percepire la pensione.

E come un cane che si morde la coda, questo sistema grava sui contribuenti con il ricorso dello stato alla fiscalità generale per coprire i “buchi” dell’Inps, nonché sui lavoratori con l’imposizione di un’aliquota ordinaria di ben il 32,7% (23,81% a carico dell’impresa e 8,89% a carico del lavoratore) sui redditi lordi. Questo sistema disincentiva al lavoro (in regola), alla creazione di occupazione, alle dichiarazioni fiscali fedeli e deprime i salari, sottraendo risorse allo stato e rallentando i tassi di crescita dell’economia, rendendo la previdenza insostenibile e al contempo una sorta di Sacro Graal dei problemi sociali di una popolazione sempre più anziana e sempre meno produttrice di nuova ricchezza, dove finiscono per essere spesso i nonni a sostentare figli e nipoti disoccupati o impiegati a basso reddito.

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