Chi mastica di elementi di finanza, sa che l’oro è considerato da sempre un “safe asset”, bene rifugio per eccellenza. Esso è ambito nei momenti di tensioni geopolitiche, economiche e finanziarie. Una delle sue principali funzioni consiste nel tutelare il potere di acquisto. In pratica, è uno scudo contro l’inflazione. Capita, però, che esca il dato sull’inflazione negli Stati Uniti a dicembre in calo al 6,5% dal 7,1% del mese precedente. I mercati festeggiano e l’oro, anziché scendere, sale. Venerdì, sfondato la soglia dei 1.900 dollari l’oncia, portandosi ai massimi dall’aprile scorso, cioè da nove mesi a questa parte.

In teoria, sarebbe dovuto accadere il contrario. Se c’è meno inflazione, non dovrebbe abbassarsi la domanda di oro?

Ebbene, l’analisi è sempre più complessa di quanto supponiamo attraverso la sola conoscenza dei concetti elementari. E’ vero, con un’inflazione in calo (anche in Europa) verrebbe meno uno dei principali driver della domanda di oro di questi ultimi mesi. Ma questo fenomeno si porta dietro altre conseguenze, le quali impattano positivamente sulle quotazioni del metallo. Analisti e investitori si aspettano che la Federal Reserve alzi i tassi d’interesse a ritmi più moderati delle precedenti riunioni. E questo di per sé sta indebolendo da settimane il dollaro americano contro le altre principali valute mondiali.

La sola prospettiva di tassi futuri meno alti di quanto previsto fino a poco tempo fa ha favorito il ritorno dei capitali sul mercato obbligazionario. Guardate al T-bond a 10 anni: rendeva quasi il 4,25% a ottobre, mentre adesso è sceso sotto il 3,50%. Così è accaduto anche sugli altri principali mercati, come in Europa. Questo significa che i bond stanno diventando meno remunerativi di qualche settimana fa. E poiché sono un investimento concorrenziale all’oro, quest’ultimo sta diventando relativamente più attraente.

Oro, prospettive a breve e lungo termine

E un dollaro più debole favorisce la domanda di oro presso gli investitori all’infuori degli Stati Uniti, in quanto abbassa il costo reale del metallo.

Ricordate, infatti, che questo asset è quotato in dollari sui mercati internazionali. Del resto, nel corso di gran parte del 2022 le quotazioni erano scese con l’inflazione ai massimi da 40 anni nel Nord America e in Europa. Il paradosso si spiegò proprio con il rafforzamento del dollaro da un lato e l’esplosione dei rendimenti obbligazionari dall’altro. Adesso, sta avvenendo il contrario con l’affievolimento della crisi energetica in Europa.

Non è detto che il trend prossimo sia lineare. Il 2023 sta iniziando con prospettive meno allarmanti per l’economia mondiale. Gli Stati Uniti potrebbero schivare la recessione e le probabilità si stanno riducendo persino per l’Area Euro. Un andamento del PIL meno peggiore delle attese stimolerebbe l’appetito per il rischio, favorendo il ritorno dei capitali sui mercati azionari. Per l’oro, però, sarebbe una notizia tendenzialmente negativa. Lo stesso dicasi nel caso in cui la guerra tra Russia e Ucraina dovesse cessare.

Esiste, tuttavia, un tonificante di lungo periodo a favore dell’oro. La deglobalizzazione in corso, che si sta traducendo in un re-shoring delle catene di produzione, porterà verosimilmente a costi e prezzi al consumo strutturalmente più alti. Potremmo non vedere più i tassi d’inflazione quasi a zero degli anni pre-Covid. E tutto ciò che paventa un’accelerazione nella perdita del potere di acquisto fa bene all’oro.

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