L’India è da quest’anno lo stato più popoloso del mondo con 1,4 miliardi di abitanti, avendo scavalcato anche la Cina. A differenza di questa, non ha un problema di invecchiamento demografico. E il suo tasso di crescita economico potrebbe portarla nel giro di alcuni decenni a salire in testa alle classifiche internazionali sul PIL. Ma non è tutto rose e fiori nemmeno a Nuova Delhi, dove è esploso il tema dell’orario di lavoro. Se in Europa ci si dilania attorno al dibattito sulle 35 ore settimanali a parità di stipendio, il fondatore di Infosys ha di recente lanciato il suo monito ai giovani: lavorate non meno di 70 ore a settimana per potenziare l’economia indiana.

Monito di Murthy, suocero di Sunak

Narayana Murthy è niente di meno che il suocero di Rishi Sunak, il premier britannico, che sappiamo avere origini indiane. La sua è una società di servizi informatici con sede a Bangalore. A suo dire, i giovani di oggi starebbero prendendo “le cattive abitudini degli occidentali”, vale a dire assegnerebbero maggiore peso allo svago e meno al lavoro. Gli ha fatto eco Ayushmaan Kapoor, fondatore di Xeno, società di sviluppo di software. Egli ritiene che “se vuoi essere il numero uno, devi lavorare duro e per più ore”.

L’orario di lavoro è un tema sensibile in Occidente, un po’ meno in Asia. L’equilibrio tra vita privata e professionale non è avvertita qui con la stessa tensione che c’è da noi. Già oggi, ad esempio, un lavoratore indiano in media trascorre 47,7 ore a settimana sul posto di lavoro, più di un collega cinese (46,1) e persino giapponese (36,6). I nipponici hanno la fama di essere lavoratori instancabili, ma a ben vedere passano in ufficio meno ore di un italiano.

In India si guarda al modello cinese

Le medie in sé non dicono tutto. E’ perfettamente normale che un indiano lavori anche 60 ore a settimana.

Pertanto, la proposta di Murthy di arrivare a 70 suona un po’ meno estrema di quanto crediamo. Il punto è che l’India deve recuperare il tempo perduto rispetto ad economie concorrenti come la Cina nei processi di sviluppo economico. In dollari, il suo PIL negli ultimi trenta anni è cresciuto di quasi 11 volte, alla media dell’8,5% all’anno. In Cina, è salito di 41 volte, alla media del 13,3% all’anno. Per colmare questo gap è necessario rilanciare anche la produttività. E molti imprenditori indiani credono che la soluzione sia trascorrere più ore al lavoro.

In particolare, Murthy, Kapoor e soci guardano con ammirazione al modello cinese noto come 996. Sembra un prefisso telefonico, ma sta per “lavorare dalle 9 di mattina alle 9 di sera e per 6 giorni alla settimana”. Se fate i calcoli, scoprirete che significa lavorare anche più di 70 ore a settimana. E’ evidente che questo dibattito sull’aumento dell’orario di lavoro possa apparirci assurdo. Teniamo conto, tuttavia, che l’India si trova a uno stadio di sviluppo ben più basso dell’Occidente, oltre che della stessa Cina.

Orario di lavoro e progresso economico

La storia dell’economia ci insegna che nelle fasi di sviluppo l’orario di lavoro è sempre sostenuto, anche in conseguenza della scarsa diffusione della tecnologia. Man mano che il progresso attecchisce, le macchine sostituiscono i lavoratori e consentono loro di lavorare meno e al contempo di migliorare gli stessi obiettivi di produzione. La crescita della produttività del lavoro aumenta le retribuzioni, gli standard di vita e la sensibilità comune per il tempo libero. Insomma, certi ragionamenti anche in India verranno da sé.

Ma tutto è più complicato oggi di qualche decennio fa. Il mondo è globalizzato e i comportamenti sociali tendono ad uniformarsi. Non è un caso che l’appello sull’orario di lavoro riguardi i giovani.

Non solo sono la parte più produttiva della nazione indiana, ma anche la meno incline a passare tutto il giorno sul posto di lavoro. I modelli di riferimento sono per loro inevitabilmente quelli che i social e i canali di comunicazione tradizionali veicolano da aree come Stati Uniti ed Europa. D’altra parte la tecnologia è ben diffusa ormai in tutto il mondo e l’India è persino all’avanguardia, per cui rifarsi a modelli di lavoro tradizionali effettivamente appare in contraddizione con la realtà.

[email protected]