Non ci sarà l’annuncio di un nuovo aumento dei tassi di interesse al termine dell’ultimo board dell’anno della Banca Centrale Europea (BCE). E’ una delle certezze di queste settimane dopo il dato sull’inflazione di novembre nell’Eurozona, sceso al 2,4%. Già ad ottobre c’era stata la prima pausa dall’inizio della stretta monetaria di quasi un anno e mezzo fa. Ma le borse farebbero bene a non farsi prendere dall’eccessivo entusiasmo. Anzi, gli investitori dovrebbero prestare molta attenzione alle parole che il governatore Christine Lagarde utilizzerà in conferenza stampa per spiegare le decisioni del board.

Boom delle borse con stagnazione economica

Nel primo pomeriggio di oggi, la BCE fornirà le nuove proiezioni macroeconomiche per il triennio prossimo. Per la prima volta saranno diffuse in relazione al 2026. Stando alle stime di settembre, l’istituto si aspetta che l’inflazione nell’Eurozona scenda sotto il target del 2% solo alla fine del 2025 e che resti sopra il 3% fino al quarto trimestre del 2023. Alla luce della disinflazione più veloce del previsto, possibile che segnali una discesa sotto il 2% ben prima. Ciò equivarrebbe a indicare un primo taglio dei tassi BCE non lontano.

Tuttavia, c’è un dato su cui le borse dovrebbero riflettere. Piazza Affari è salita ai massimi da quindici anni e mezzo, mentre Francoforte e Parigi hanno segnato record assoluti. Sembra che le rispettive economie stiano andando a gonfie vele. Sappiamo che così non è. La Germania è in recessione, la Francia quasi e l’Italia cresce pochissimo. Il boom azionario sconta il taglio dei tassi BCE atteso dal mercato già per marzo. Ma i funzionari dell’Eurotower hanno a più riprese fatto presente che prima di allentare la politica monetaria, vogliono essere certi che l’inflazione sia rientrata.

Cresce costo del lavoro

Il dato “core” di novembre è sceso al 3,6%, ancora significativamente maggiore del target del 2%.

La BCE teme che, così come ha reagito in eccessivo ritardo nel contrastare il boom dell’inflazione, adesso rischia di sovrastimare la disinflazione in corso. E per questo monitora con attenzione la crescita dei salari. Il costo del lavoro nel terzo trimestre è cresciuto nell’area del 6,8% su base annua. Non era stato così alto sin dal 2009. Solo che allora era crollato il numero delle ore lavorate a causa della crisi finanziaria ed economica mondiale. Accade lo stesso in pandemia. Stavolta, le ore lavorate non c’entrano, a salire sono le retribuzioni grazie ai rinnovi contrattuali.

I sindacati stanno cercando di strappare alle imprese aumenti salariali cospicui per recuperare il potere di acquisto perduto dai lavoratori negli ultimi due anni. Così facendo, però, rischiano di perpetuare l’inflazione nell’area e di frustrare la BCE nel suo tentativo di riagguantare il target del 2%. In un certo senso, però, tale recupero appare inevitabile. Non si può pensare che a pagare siano solo i lavoratori, mentre le imprese hanno in molti casi non solo potuto scaricare interamente gli aggravi dei costi sui prezzi finali, bensì maturare maggiori profitti.

Taglio dei tassi BCE con riduzione margini di profitto

Il boom delle borse di questi mesi è frutto anche di questo. Non c’è solo l’attesa per il taglio dei tassi BCE. Le azioni salgono per i margini più alti. L’esempio classico è dato dalle banche, che sono riuscite a sfruttare l’aumento dei tassi a lavoro favore. Anche il comparto energetico se l’è cavato alla grande. L’unico modo per evitare che i rinnovi contrattuali impattino ancora una volta sui prezzi sarebbe o che crescesse la produttività del lavoro o che le imprese accettassero di ridursi i margini di profitto. La BCE opta per questa seconda ipotesi, in quanto la prima richiederebbe tempo e prescinde perlopiù dalla volontà dei lavoratori stessi.

In pratica, il taglio dei tassi BCE richiederà un “sacrificio” preliminare alle imprese. E questo non può che tradursi negativamente sulle borse. Esse scontano i profitti attesi delle aziende quotate, che possibilmente dovranno essere rivisti al ribasso nei prossimi trimestri, indipendentemente dalla congiuntura economica. C’è anche da dire che, date le condizioni delle varie economie nazionali, eventuali ulteriori rincari appaiono oggi meno possibili rispetto al passato. I consumi non reggerebbero e, quindi, le imprese stesse troveranno meno facile scaricare sui prezzi il maggiore costo del lavoro.

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