La Banca Centrale Europea (BCE) continuerà ad alzare i tassi d’interesse anche al board di fine luglio, quando quasi certamente saliranno di un altro 0,25%. L’incertezza riguarda semmai la riunione di settembre. Se per allora l’inflazione nell’Area Euro non sarà scesa in misura significativa e tendente al target del 2%, i “falchi” del Nord Europa spingeranno per ottenere una decima stretta monetaria. Dalla loro hanno il fatto che l’inflazione di fondo, al netto di energia e generi alimentari, a giugno sia tornata a salire al 5,4%.

Ad essa guarda con attenzione Francoforte sul timore che, una volta che il caro bollette è venuto quasi del tutto meno, gli aumenti dei prezzi stiano trasferendosi al resto dei panieri nazionali, attraverso una crescita salariale fuori controllo.

Target BCE del 2%, spiegazione e critiche

L’obiettivo resta di riportare al più presto l’inflazione nell’Area Euro al 2%. Feticcio o necessità? Economisti e politici si mostrano da sempre divisi. Lo sono a maggior ragione adesso che per centrare l’obiettivo si richiedono alle economie nazionali sacrifici in forma di costo del denaro più alto. Nel decennio passato, quando le banche centrali ebbero il problema opposto di non riuscire a centrare il target per via di tassi d’inflazione troppo bassi, il premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman, arrivò ad invocare un raddoppio dei target medesimi. Un paradosso. Gli istituti, che non riuscivano a stimolare i prezzi al consumo del 2%, si sarebbero dovuti vincolare a raggiungere il +4-5% all’anno.

A sostegno della sua tesi, Krugman spiegò che fosse il target troppo basso a tenere le aspettative del mercato altrettanto “gelide”. Ogni volta che l’inflazione sembrava rialzare un minimo la testa, il mercato scontava una stretta sui tassi e tornava ad aspettarsi un’inflazione futura più bassa, frustrando le aspettative delle banche centrali.

Comunque sia, dall’uomo della strada a molti politici si chiedono da anni se il target del 2% abbia un senso logico, “scientifico” o sia simile a quel tetto massimo per il deficit al 3% del PIL imposto dal Patto di stabilità.

Tutte le principali banche centrali fissano da decenni un target al 2%. Perché? L’ideale sarebbe che l’inflazione fosse zero. Il mancato aumento dell’indice generali dei prezzi annullerebbe la perdita del potere di acquisto e i costi legati all’esigenza di rinegoziare i contratti e di disfarsi nel tempo della moneta. Tuttavia, fissare una regola così rigida avrebbe controindicazioni secondo i banchieri centrali. Li costringerebbe a tenere i tassi sempre alti, finendo per strozzare la crescita economica. Ma c’è un ragionamento più sottile. Parte di loro crede che un minimo d’inflazione sia da stimolo all’economia. Dopodiché esistono anche ragioni più squisitamente “tecniche”. Vediamole.

Quale inflazione “reale”?

Quando si misura l’inflazione in una data economia, lo si fa osservando il paniere del periodo precedente. Ad esempio, oggi assegniamo un peso a ciascun bene e servizio facente parte del paniere sulla base dei dati di spesa delle famiglie nel 2022. Nel frattempo, però, le abitudini di consumo possono essere variate proprio per la reazione alle variazioni dei prezzi. Se in un dato periodo i prezzi del burro salissero del 30%, probabile che i consumatori preferiranno comprare più margarina, olio, ecc. Dunque, l’effetto sostituzione porta a un calmieramento dei prezzi quasi immediato come strumento di autodifesa delle famiglie. In altre parole, l’inflazione reale tende spesso ad essere sovrastimata.

E c’è la velocità di circolazione della moneta. Segnala il numero delle transazioni effettuate nell’unità di tempo in un’economia. Se sale, l’inflazione lievita. Viceversa, se essa scende. La velocità di circolazione della moneta nel breve termine è considerata stabile, ma si assiste nel tempo ad una sua riduzione.

Si misura come rapporto tra PIL nominale e l’aggregato monetario di riferimento. Negli Stati Uniti, ad esempio, è passata per l’M2 (contante più depositi a vista e convertibili senza preavviso) da una media di 1,80 fino agli anni Novanta a una compresa tra 1,8 e 2 fino ai primi anni Duemila, salvo scendere sotto 1,50 prima del Covid. Al momento, si attesta a 1,26.

Tra effetto sostituzione e riduzione della velocità di circolazione della moneta, i banchieri centrali hanno calcolato che sarebbe opportuno fissare target d’inflazione del 2%, che corrisponderebbero a una variazione di fatto nulla degli indici dei prezzi nel mondo reale e istantanea. Se vogliamo essere meno pignoli, sarebbe anche un modo per dire che esisterebbe una minima tolleranza dell’inflazione, pur non tale da permettere ai prezzi di salire troppo.

Inflazione BCE e crescita massa monetaria

Nell’Area Euro, la BCE tiene sott’occhio l’inflazione guardando all’aggregato monetario M3 (contante, depositi a vista, depositi vincolati con preavviso di 90 giorni, quote di fondi liquidità, ecc.). Esso tenderebbe a segnalare l’andamento dell’inflazione fino ai successivi 18 mesi. Come dimostra il grafico di sotto, nel marzo del 2021 fu raggiunto l’apice record con una crescita annua del 13,3%. Un anno e mezzo dopo l’inflazione esplodeva al 10,6%. Prima del Covid, l’M3 cresceva ad un ritmo medio del 5%. Attualmente, è sceso a +1,4%, ai minimi dal 2014, cioè tornando ai valori di quando la BCE di Mario Draghi iniziò a discutere sul varo del Quantitative Easing per arginare il rischio di deflazione.

Crescita massa monetaria M3

Queste cifre lascerebbero intendere che nei prossimi mesi l’inflazione nell’Area Euro scenderà al punto da potere persino diventare negativa. In quel caso l’istituto dovrebbe correre ai ripari nel senso opposto, cioè tagliando i tassi e iniettando finanche liquidità attraverso acquisti di bond. Scenario apparentemente lontanissimo, anche se sulla capacità previsionale di Francoforte esistono seri dubbi certificati dai numerosissimi errori di valutazione nell’ultimo quindicennio.

Soltanto un anno fa l’inflazione era ancora considerata “transitoria”, mentre oggi il governatore Christine Lagarde non fa che esprimere preoccupazioni circa il suo attecchimento. Nulla è escluso. Ma non è il target del 2% il problema, quanto l’incapacità di sventare in tempo i rischi che incombono sulla stabilità dei prezzi e segnalati dai dati monitorati.

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