Giorgia Meloni lo aveva promesso in campagna elettorale. Nel caso di vittoria, avrebbe cancellato il reddito di cittadinanza per sostituirlo con un sussidio meno disincentivante al lavoro. E con il decreto dell’1 maggio ha adempiuto alla promessa. Al suo posto arriveranno Assegno di inclusione e Supporto per la formazione e lavoro. Il primo è un sussidio a favore dei beneficiari attualmente considerati “non occupabili”, mentre il secondo riguarderà i “non occupabili”. Per farla breve, tutti coloro che hanno tra 18 e 60 anni di età, privi di invalidità e senza minori a carico saranno ritenuti occupabili.

Gli over 60, chi ha invalidità e/o figli minorenni a carico saranno considerati “non occupabili”.

Risparmi in almeno 1 miliardo

L’Assegno di inclusione varierà tra 500 e 900 euro al mese in base al numero dei componenti familiari e al reddito di partenza. Il governo stima che ne beneficeranno 730.000 famiglie nel 2024, circa 1 milione in meno della media ogni anno. Facendo quattro conti e considerato l’importo medio di 700 euro, la spesa per questa nuova forma di reddito di cittadinanza ammonterebbe ad oltre 6,1 miliardi.

E poi c’è il Supporto per la formazione e lavoro. A beneficiarne per 350 euro al mese per 12 mesi e senza possibilità di rinnovo saranno coloro che si metteranno a disposizione per un lavoro e frequenteranno un corso di formazione. Non potranno rifiutare neppure un’offerta “congrua”. Secondo le stime del governo, l’anno prossimo dovrebbero percepirlo 322.000 persone. Qui, il costo dovrebbe ammontare a 1,3-1,4 miliardi all’anno. Nel totale, quindi, i due sussidi che rimpiazzeranno il vecchio reddito di cittadinanza costeranno fino a 7,5 miliardi. Poiché l’anno scorso abbiamo speso 8,8 miliardi, il risparmio atteso sarebbe nell’ordine di oltre 1 miliardo.

Nuovo reddito di cittadinanza non più a vita

Tuttavia, esso potrebbe raddoppiare. Già nei primi due mesi di quest’anno, infatti, le richieste del sussidio sono crollate dei due terzi in confronto allo stesso bimestre del 2022.

La stretta annunciata dal governo Meloni avrebbe dissuaso molti “furbetti” anche solo dal presentare domanda. Ed è probabile che molti avranno rinunciato a percepire il reddito di cittadinanza, considerato che il sostegno non sarà più “a vita” come lo era stato in questi anni. Più che il risparmio in sé, la riforma si mostra rilevante per quanto concerne l’impatto che avrà sul mercato del lavoro.

Fino ad oggi centinaia di migliaia di persone erano state disincentivate a cercare un posto di lavoro o ad accettarne uno. Vogliamo essere chiari, non si tratta di essere “fannulloni” o di voler poltrire sul divano. Questi sono giudizi morali estranei alla scienza economica. Semplicemente, tra bassi salari medi in Italia e alti sussidi erogati con il reddito di cittadinanza, andare a lavorare non conviene più. E l’Italia ha bisogno, però, di più persone che lavorino, producano e contribuiscano così alla propria crescita e a quella dell’economia nazionale.

Serve lavoro, non sussidi

Altro discorso riguarda, invece, la congruità dei risparmi per finanziare voci di spesa promesse dal governo. Con 1-2 miliardi ci fai ben poco sulle pensioni, né potrai tagliare a sufficienza il cuneo fiscale. Le coperture andranno cercate altrove. Ed è nei fatti ciò che sta accadendo. L’esecutivo non guarda a questi risparmi per il taglio dell’IRPEF e dei contributi previdenziali ai lavoratori. Né per superare la legge Fornero, ammesso che la premier acconsenta. In effetti, il principale costo del reddito di cittadinanza non è stato dato in questi quattro anni dai circa 30 miliardi di euro spesi. Esso è di tipo socio-economico, in quanto impatta negativamente sulla percezione poco o per nulla appetibile che il cittadino-beneficiario nutre verso il lavoro.

L’Italia ha un tasso di occupazione salito al 60,9%, un record per la storia del nostro mercato del lavoro, ma che diventa ridicolo nel confronto internazionale.

In Francia sfiora il 70%, in Germania supera il 76% e paesi come l’Olanda vanno ben oltre l’80%. Per tendere alla media europea bisogna varare una politica “work-friendly”. E la strada non può essere quella di tartassare chi lavora e fa impresa e sussidiare chi sta a casa. Serve il capovolgimento del modo di pensare del legislatore, che per troppi anni ha posto l’accento sulla redistribuzione della ricchezza prima di porsi il problema di come far sì che questa crescesse. Il risultato è stato un’economia stagnante nel migliore dei casi e povertà dilagante.

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