Manca ancora una riforma ufficiale. MIA (Misura di Inclusione Attiva) rimpiazzerà dal 2024 il reddito di cittadinanza introdotto nel 2019 dal primo governo Conte. Ma già da questa estate dovrebbero materializzarsi le prime conseguenze della stretta voluta dal governo Meloni con la legge di Bilancio. I beneficiari tra 18 e 60 anni di età, senza figli a carico e privi di invalidità civile, perderanno il sussidio dopo sette mesi. In attesa di conoscere i nuovi criteri per i beneficiari, gli italiani hanno iniziato ad anticipare la manovra.

Secondo l’INPS, nei mesi di gennaio e febbraio del 2023 le domande per ottenere il reddito di cittadinanza sono crollate del 65,23% a 90.887. Erano state 261.378 nel primo bimestre dello scorso anno. I dati non sono definitivi, perché non includono le domande in lavorazione e quelle incomplete.

Significativo il dato di febbraio: appena poco più di 2.000 richieste. Lo scorso mese, i nuclei familiari che beneficiavano del reddito o la pensione di cittadinanza erano 1 milione per un totale di 2,135 milioni di persone coinvolte. Si è trattato del dato più basso dall’ottobre 2020. Sappiamo che la congiuntura economica può influire sulle richieste. Quando le condizioni del mercato del lavoro migliorano, probabile (non scontato) che meno persone facciano domanda del sussidio. Ed è certamente vero che negli ultimi mesi l’occupazione ha segnato il record storico, raggiungendo il 60,8% a febbraio.

Tuttavia, non siamo senza dubbio in boom economico. Tutt’al più possiamo sperare per quest’anno di schivare la recessione e crescere dello zero virgola, dopo avere recuperato interamente le perdite causate dalla pandemia nel biennio passato. Nessun dato macro sembra giustificare il crollo delle richieste per il reddito di cittadinanza. Esso sarà con ogni probabilità legato al nuovo clima che si respira in Italia con la nascita del governo Meloni. La maggioranza di centro-destra, pur con qualche sfumatura diversa, è contraria al sussidio e pensa semmai di incentivare le assunzioni delle aziende.

Reddito di cittadinanza per “non occupabili”

“Chi può, deve andare a lavorare” è il mantra ripetuto dalla premier Giorgia Meloni anche dinnanzi a una platea difficile come il congresso della CGIL di pochi giorni fa. La legge in preparazione dal ministro del Lavoro, Marina Calderone, distingue tra “occupabili” e “non occupabili”. Per i primi s’intendono coloro che hanno meno di 60 anni, in buone condizioni di salute e senza soggetti minorenni a carico. Ci chiediamo, però, per quale motivo una persona che ufficialmente ha diritto a un beneficio, rinunci persino a farne richiesta. C’è una diffusa stigmatizzazione sociale verso i percettori del reddito di cittadinanza, che verosimilmente sta spingendo molti di coloro che rientrano nella definizione di “occupabili” a non presentare domanda.

Ma è molto probabile che la rinuncia sia perlopiù causata dalla sensazione che il sussidio, una volta ottenuto, sarebbe mantenuto per pochi mesi, vista la riforma in atto. E può anche darsi che gli stessi Caf stiano chiedendo ai clienti di attendere la riforma per verificarne criteri e possibili alternative disponibili. In sostanza, l’Italia è in stand-by. Anche per questo sembra che il governo voglia accelerare sul nuovo reddito di cittadinanza. La notizia positiva è che le casse dell’INPS starebbero già risparmiando grazie alle minori erogazioni.

Le notizie quotidiane di “furbetti” scoperti con le mani nella marmellata non devono far passare il messaggio che tutti i percettori siano sprovvisti dei requisiti o che facciano la bella vita. Lo stato di bisogno esiste ed è particolarmente diffuso al Sud. Resta il fatto che il reddito di cittadinanza per anni avesse propinato l’idea che si potesse vivere indefinitamente a carico dei contribuenti. Paragoni frequenti con la legislazione di altri stati europei, Germania in testa, avevano distolto l’attenzione dalle peculiarità tutte negative del Bel Paese: bassa occupazione al Sud, scarsa scolarizzazione, alta evasione fiscale e lavoro nero diffuso.

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