Quando la settimana scorsa i ministri dell’Economia di Francia e Germania annunciavano un accordo “storico” per riformare il Patto di stabilità, Bruno Le Maire avrà pensato di avere limitato i danni per Parigi e Christian Lindner di poter vendere qualcosa al suo sempre più striminzito elettorato. E da Roma Giancarlo Giorgetti ha portato a casa parte delle richieste inviate ai partner dell’Unione Europea, pur non tutte. Insomma, tutti possibili vincitori e nessuno chiaramente sconfitto. Come se una partita di Champions League finisce in pareggio e ciascuna delle due squadre ritiene di poterla spuntare alla gara di ritorno.

Patto di stabilità, le vittorie temporanee di Francia e Italia

Ci sono elementi nel nuovo Patto di stabilità che avvantaggiano nei prossimi anni Francia e Italia. La prima ha ottenuto lo scorporo degli interessi sul debito ai fini del calcolo del deficit fiscale. La seconda anche gli investimenti realizzati con il Pnrr per spalmare in sette anni l’aggiustamento dei conti pubblico. Esso è fissato allo 0,4% del PIL all’anno per quattro anni per i paesi con disavanzi sopra il 3% fino a raggiungere l’1,5%. In cambio di riforme e investimenti per l’appunto, scenderebbe allo 0,25% all’anno per sette anni.

La fase di transizione durerà fino al 2027, anno in cui il Pnrr non ci sarà più. Da qui ad allora ci sarebbe tutto il tempo per rivedere le nuove regole fiscali, che altrimenti si rivelerebbero più ardue del previsto da implementare. E per la Francia andrebbe persino peggio dell’Italia. Ma concentriamoci sui numeri del nostro bilancio statale. Il deficit strutturale massimo che ci sarà consentito avere è dell’1,50% del PIL. Considerate che allo stato attuale la spesa per interessi si attesta al 4% del PIL e che nel 2024 il governo Meloni ha fissato un obiettivo di disavanzo del 4,40%.

Maxi-avanzo primario per centrare il target sul deficit

In altre parole, ipotizzando una spesa per interessi invariata nel lungo periodo, l’Italia dovrebbe tendere a un avanzo primario (al netto di tale voce) al 5,50%.

Le entrate fiscali dovranno superare tutte le spese, ad eccezione degli interessi, di 110 miliardi di euro ai valori attuali del PIL nominale. Il Fondo Monetario Internazionale giudica irrealistico sul piano politico persino un avanzo primario sopra il 3%. Lo ha detto e scritto più volte negli anni con riferimento alle trattative tra Grecia e creditori pubblici europei. E avrà senz’altro le sue ragioni. L’Italia ha raggiunto o superato un tale livello di avanzo solamente tra il 1995 e il 1999 e nel 2007, perlopiù con misure una tantum prese per far parte sin da subito dell’Area Euro. Nel decennio pre-Covid l’apice fu raggiunto nel 2019 con un avanzo primario all’1,8%.

Quest’anno dovremmo chiudere con un disavanzo primario nell’ordine dell’1,50%. Anche volendo ipotizzare che nel lungo periodo la spesa per interessi tenda ai livelli vigenti in media prima della stretta monetaria, in area 2,50% del PIL, dovremmo tendere a un avanzo primario del 4%. Ci sarebbero cinque punti e mezzo da colmare in sette anni: ai valori attuali, tra 15,5 e 16 miliardi di euro all’anno tra tagli alle spese e aumenti delle entrate (maggiori tasse). E’ credibile tutto ciò? Secondo la Nota di Aggiornamento al DEF, redatta a fine settembre e che non contemplava ovviamente le disposizioni del nuovo Patto di stabilità, l’avanzo primario al 2026 salirebbe all’1,6% del PIL.

Serve abbattere lo spread

Dunque, rispetto alle regole fiscali europee dovremmo entro l’anno successivo recuperare da qualche parte altri due punti e mezzo di PIL, qualcosa come 50 miliardi di euro ai valori attuali. D’altra parte, facendo valere le clausole del Pnrr, potremmo spalmare l’aggiustamento in sette anni, per cui l’avanzo primario del 4% dovrebbe essere raggiunto non prima del 2031.

Ad ogni modo, la politica fiscale diverrebbe restrittiva al punto da strozzare la crescita economica.

L’unica speranza sarebbe che le misure messe in campo dal governo italiano per migliorare i conti pubblici siano talmente convincenti da ridurre lo spread e abbassare la spesa per interessi. Accadde proprio con la marcia di avvicinamento all’euro, quando tale voce si dimezzò in pochi anni dall’11% al 5,50% del PIL. Se, ad esempio, riuscissimo a dimezzare l’extra-rendimento preteso dal mercato sui nostri titoli di stato rispetto a quelli tedeschi, a regime oggi come oggi si libererebbero risorse per almeno una decina di miliardi all’anno. Infatti, la spesa per interessi scenderebbe sotto il 2% del PIL dal 2,50% sopra ipotizzata e renderebbe necessario un minore aggiustamento di oltre mezzo punto del PIL.

Scetticismo sul nuovo Patto di stabilità

Ancora una volta, tuttavia, i numeri sembrano tali da generare scetticismo circa la reale volontà dei governi di implementare il Patto di stabilità rivisitato. E allora perché lo hanno firmato? Per calciare il barattolo e prendere tempo. Tutti avevano bisogno di regole chiare entro cui redigere i bilanci e della sufficiente flessibilità nel breve periodo per non colpire eccessivamente la crescita economica. Tutti sanno che probabilmente da qui ai prossimi anni l’Europa sarà costretta ad affrontare nuove sfide, tali da rendere forse superate anche le nuove disposizioni comuni in materia fiscale. Anche perché a Bruxelles si conferma la tendenza a fissare obiettivi campati in aria. Il risanamento dei conti pubblici è politicamente quasi impossibile da sostenere in assenza di crescita. E manca proprio una strategia comunitaria per accelerarne i ritmi. Sono ormai due decenni che ne parliamo senza alcuna soluzione.

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