Mario Draghi è rimasto in carica come premier per il solo disbrigo degli affari correnti, ma la sua esperienza a capo del governo di unità nazionale si è conclusa. Una parabola politica relativamente veloce, come sempre accade ai tecnici chiamati dai partiti per togliere loro il fuoco dalle castagne. Ben diversa e di maggiore successo fu, invece, l’era Draghi da governatore. Della Banca d’Italia prima (2005-2011) e BCE dopo (2011-2019). Sin dal suo insediamento a Francoforte, il nostro premier dimissionario si distinse per una politica monetaria ultra-espansiva.

Tagliò i tassi d’interesse fino a portarli in territorio negativo qualche anno più tardi ed entro tre mesi aveva già prestato oltre 1.000 miliardi di euro alle banche dell’Eurozona, di cui 250 miliardi alle italiane, a tassi d’interesse dell’1% e fino a tre anni.

Tassi negativi e quantitative easing

Il grosso delle misure venne, però, solo dal 2014-2015 in poi. Oltre ai tassi negativi, Draghi varò le aste T-Ltro, cioè mirate a sostenere gli impieghi delle banche, nonché il potente “quantitative easing”. Quest’ultimo programma monetario consistette in acquisti di titoli di stato e obbligazioni private fino a un massimo di 80 miliardi di euro al mese. Con la sola eccezione del 2019, esso rimase in vigore fino allo scorso 30 giugno.

In tutto, si calcola che il sistema Italia abbia ottenuto tra il 2015 e il mese scorso qualcosa come 1.200 miliardi di euro tra prestiti bancari, acquisti di obbligazioni private e titoli di stato. Il governo italiano è stato il principale beneficiario con BTp inseriti nel portafoglio BCE per quasi 730 miliardi di euro, oltre il 26% dell’intero debito pubblico e quasi un terzo dei soli titoli di stato.

Grazie all’era Draghi, i costi di emissione del debito pubblico in Italia crollarono dal 3,61% medio del 2011 allo 0,93% del 2019. E il minimo storico fu toccato l’anno scorso allo 0,10%.

E’ vero che al timone della BCE c’è Christine Lagarde da ormai quasi tre anni, ma la politica monetaria sin qui seguita, complice la pandemia, è rimasta praticamente nel solco tracciata dal predecessore. Ergo, l’era del denaro facile non è finita neppure dopo lo scorso giovedì, quando la BCE ha alzato i tassi d’interesse dello 0,50%. Se consideriamo che attualmente l’inflazione sia all’8,6%, i tassi reali nell’area non erano mai stati così negativi.

Economia italiana al palo durante l’era Draghi

Questi numeri, tuttavia, segnano la condanna dell’economia italiana. Nell’era Draghi, essa crebbe di appena l’1%, cioè al ritmo medio dello zero dello 0,1% all’anno. Nello stesso periodo, il rapporto debito/PIL è salito dal 120% al 134%. I progressi sul piano fiscale sono stati esigui, con l’avanzo primario ad essere migliorato in misura marginale. Scarse anche le riforme economiche varate, tant’è che ancora ricorriamo ai governi tecnici per realizzarle. Fatta eccezione per la legge Fornero nel 2011 e la revisione dell’art.18 nel 2015, non ci sono state sostanziali novità.

Adesso, la BCE si trova costretta a mutare indirizzo. Ha già dovuto concludere i due programmi monetari consistenti negli acquisti dei bond e ha iniziato ad alzare i tassi. Le condizioni monetarie sono diventate meno espansive e tendenzialmente lo saranno sempre meno nei prossimi mesi. Ma se l’economia italiana non era riuscita ad approfittare della lunga era Draghi del denaro a costo zero, come potrà mai pensare di crescere in uno scenario molto meno favorevole, peraltro tempestato da tensioni geopolitiche? E’ la domanda che i mercati si pongono e che si riflette negli elevati spread di questi mesi.

In definitiva, l’era Draghi non ha “salvato l’Italia”, ma ne ha semplicemente impedito il fallimento. Come un’azienda in perdita finanziata a bassissimo costo dalla banca a ogni scadenza del prestito.

Ma l’azienda non si riprende, continua a produrre in perdita e con il rialzo dei tassi d’interesse dovrò pure spendere di più per mantenersi in vita. Più che un salvataggio, il prolungamento di un’agonia.

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