L’inflazione americana è salita al 6,2% nel mese di ottobre, il livello più alto dal novembre 1990, cioè da oltre 30 anni a questa parte. In Germania è al 4,5%, record dal 1993. Nell’intera Eurozona, si è attestata al 4,1%. E’ prevista un’ulteriore accelerazione negli ultimi mesi dell’anno. Mal celata la preoccupazione delle banche centrali, mentre sui mercati finanziari si continua a respirare aria di serenità. L’indice S&P 500 a Wall Street segna un rialzo di oltre il 25% quest’anno e all’inizio di questa settimana toccava il suo ennesimo massimo storico.

E’ vero che i rendimenti americani sono saliti dopo la pubblicazione del dato sull’inflazione, ma restando profondamente negativi in termini reali. Il decennale USA, ad esempio, si è portato sopra 1,55%, che oggi come oggi implica un rendimento reale del -4,65%. Come mai gli obbligazionisti sono disposti a perdere così tanto. E come mai gli azionisti non stanno scontando alcun impatto negativo per l’economia derivante dal rialzo dei tassi tanto atteso?

Una prima spiegazione immediata sarebbe che gli investitori siano così avveduti da non farsi suggestionare dalle paure di questa fase serpeggianti tra le famiglie, le imprese e gli stessi governi. I mercati guardano tipicamente a un orizzonte temporale lungo, per cui possono anche reagire malamente a qualche cattiva notizia, ma tendono a somatizzarla velocemente e a restare legati ai fondamentali di lungo periodo. Se così stessero le cose, effettivamente dovremmo dormire sonni relativamente tranquilli. Non starebbero prevedendo alcuno sconquasso economico con la stretta monetaria globale che verrà.

Inflazione e corsa alle azioni

Insomma, l’era dell’“easy money” potrebbe essere finita, ma non quella della crescita e dei profitti. E forse, il ragionamento di fondo sarebbe ancora più sottile: possiamo considerare archiviata l’era del denaro facile e a bassissimo costo o negativo, se le banche centrali si limiteranno quasi certamente a ritoccare i tassi di poco, a fronte di un’inflazione già al 4-5-6%? In altre parole, il denaro resterà a buon mercato anche dopo la cessazione degli stimoli monetari.

Nessuno prevede un ritorno al periodo antecedente la crisi finanziaria del 2007, quando le banche centrali tenevano i tassi al 4-5% o più. Almeno, non da qui ai prossimi anni.

E se i mercati fossero in trappola? Con l’inflazione così alta, disinvestire non sarebbe una buona idea. Vendere azioni o obbligazioni per tenere denaro contante significherebbe mandare ancora più in fumo il capitale. I rendimenti obbligazionari saranno anche bassi, ma il cash rende zero. Perché non riversarsi sulle azioni, dunque? Perché sono un asset generalmente sopravvalutato. Attualmente, i prezzi delle società quotate nell’S&P 500 valgono la media di oltre 29 volte gli utili contro una media storica di 16. I massimi di sempre si toccarono a inizio Duemila a quasi 45.

Starebbe accadendo che nessuno si senta in grado di vendere, semplicemente perché non saprebbe cosa comprare. Una situazione di paralisi, che preluderebbe allo scoppio della bolla finanziaria. Eppure, l’indice VIX, che misura la volatilità attesa del mercato azionario, implica al momento valori di oltre il 40% sopra la media storica, pur relativamente bassi. Non si evincerebbe nitidamente una reale stasi. Chissà che i mercati non siano più semplicemente in attesa di un evento che spinga loro a vendere o continuare a comprare. Ma se fossero in trappola, avrebbero abboccato bene all’amo lanciato in mare dalle banche centrali. Nel tentativo di portare le economie fuori dalle secche della bassa crescita, dal 2008 non fanno che gonfiare i prezzi degli asset finanziari a colpi di liquidità. Adesso che l’inflazione è tornata, nessuno sa davvero quale possa essere il “new normal”.

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