Il governo Meloni che sta per nascere affronterà tra i suoi primi nodi la riforma delle pensioni per evitare che dal 2023 resti in vigore soltanto la legge Fornero. Alla fine di quest’anno, infatti, scadono quota 102, Opzione Donna e Ape Social. La prima quasi certamente non sarà rinnovata in quanto costosa. Le altre due misure potrebbero essere estese a una categoria più ampia di lavoratori, così da concedere più flessibilità in uscita. Ma il presidente di Confindustria, Andrea Bonomi, ha avvertito che non possiamo permettersi “misure immaginifiche come flat tax e prepensionamenti”.

In questi giorni di tese e intense trattative per la nascita del nuovo esecutivo, il centro-destra sta valutando l’ipotesi di una cosiddetta Opzione Uomo. Altro non sarebbe che consentire anche agli uomini, così come accade ad oggi per le donne, di andare in pensione a 59 anni di età, se in possesso di almeno 35 anni di contributi.

Opzione Uomo costosa

Questa misura si scontra con la realtà dei numeri. La spesa per le pensioni entro il 2025 salirà al 17,6% del PIL dal 15,7% atteso per quest’anno. Soprattutto, si tratterebbe di un ammorbidimento eccessivo rispetto alla prevista pensione anticipata con la legge Fornero. Essa si ottiene con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Serve una via di mezzo per non farci bocciare la riforma da mercati ed Europa. Non possiamo chiedere prestiti a basso costo e sussidi a fondo perduto a Bruxelles, se poi dimostriamo di scialacquare i soldi pubblici con misure fin troppo generose.

Nuova quota 100 contributiva

E se tornassimo a una versione rivista di quota 100? Essa ha consentito tra la primavera del 2019 e la fine del 2021 ai lavoratori di andare in pensione con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi. Costo stimato: sui 5 miliardi all’anno. Troppi. Altra cosa sarebbe, invece, se mantenessimo gli stessi requisiti, ma accompagnandoli da una previsione: l’assegno sarebbe liquidato solamente con il metodo contributivo.

In altre parole, il lavoratore va in pensione fino a 5 anni prima, ma in cambio dovrà percepire solo sulla base di quanto versato.

Si dirà: eh, ma così l’assegno sarà basso. Con Opzione Uomo sarebbe ancora più basso, dato che anch’esso prevede la liquidazione dell’assegno con il solo contributivo. Dai calcoli emerge che il taglio arriverebbe al 31%. Con quota 100 tutta contributiva, sarebbe nettamente inferiore: il lavoratore andrebbe in pensione almeno 3 anni dopo, per cui il coefficiente di trasformazione risulterebbe maggiore e sarebbe applicato su un montante contributivo più alto. In effetti, rispetto ai 35 anni di contributi necessari da versare per Opzione Donna oggi (e ipoteticamente Opzione Uomo domani), qui ne servirebbero non meno di 38 anni.

Si potrebbe eventualmente restringere la platea dei beneficiari, fissando qualche altro criterio. Ad esempio, inglobando Ape Social, si darebbe la possibilità solamente a coloro che svolgono lavori gravosi di accedere al beneficio, magari concedendo loro maggiori contributi figurativi per arrivare ai 38 anni minimi. Quale che sia la soluzione, non potrà gravare sui conti pubblici, bensì essere neutrale dal punto di vista attuariale. In altre parole, chi prima va in pensione, meno prende. Una logica che terrebbe invariato il costo complessivo nel lungo periodo. E servirebbe a rassicurare mercati ed Europa che non stiamo aumentando ulteriormente la spesa per le pensioni, bensì perseguendo una misura di equità sociale senza costi aggiuntivi per il bilancio dello stato.

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