Che Nicolas Maduro potesse farla franca dopo avere portato letteralmente alla fame il Venezuela, non lo avrebbe immaginato proprio nessuno. Eppure, dopo nove anni e mezzo di presidenza, è riuscito a restare in sella al governo di Caracas, malgrado l’iper-inflazione, il bolivar diventato carta straccia, la semi-carestia dilagante e la fuga di 5-6 milioni di persone all’estero per fame. E adesso, sarebbe ad un passo dal rafforzare il suo potere con l’allentamento atteso delle sanzioni americane. Fonti vicine al dossier hanno anticipato nei giorni scorsi che il presidente Joe Biden sarebbe pronto a concedere alla compagnia Chevron di estrarre petrolio nel Venezuela, ponendo fine a un embargo che va avanti da oltre quattro anni.

Possibile baratto tra Biden e Maduro

La decisione, se venisse annunciata realmente, sarebbe la conseguenza del taglio dell’offerta di petrolio dell’OPEC di 2 milioni di barili al giorno dal mese di novembre. Sebbene il taglio effettivo sia di 1,1 milioni di barili al giorno – per il resto il cartello ha semplicemente preso atto della sua minore capacità produttiva – il segnale arrivato all’indirizzo dell’Occidente è stato devastante in settimana. L’Arabia Saudita non solo non ha intenzione di offrire sollievo alle grandi economie importatrici abbassando il prezzo del greggio, ma vuole vistosamente dare una mano al suo nuovo alleato: la Russia di Vladimir Putin.

Ed ecco che la Casa Bianca si è ricordata che nel suo stesso continente c’è un paese che dispone delle maggiori riserve petrolifere al mondo. Peccato che sia guidato da un dittatore incompetente e sanguinario, che gli USA ufficialmente non riconoscono più dal gennaio 2019. Ma quando la crisi divampa, si sa, certe ostilità possono essere accantonate. La soluzione (di facciata) di Biden sarebbe un compromesso: Maduro dovrà garantire elezioni libere e democratiche (come no!) nel 2024. In cambio, potrà tornare ad estrarre petrolio con i preziosi dollari e tecnologie americani e del resto del mondo.

Petrolio Venezuela tra embargo e sotto-investimenti

Il Venezuela estraeva fino a 3,2 milioni di barili al giorno verso la fine degli anni Novanta e all’inizio del nuovo millennio risultava tra i principali esportatori verso gli USA. Ad agosto, dai pozzi riusciva ad estrarre ancora 723.000 barili al giorno, di cui 450.000 esportati. Decenni di sotto-investimenti e il recente embargo americano hanno fatto collassare l’industria petrolifera domestica. Secondo il portavoce di Chevron, se alla sua compagnia fosse consentito di tornare ad operare nel paese andino, la produzione nazionale salirebbe a 1,5 milioni di barili al giorno entro due anni.

In tempi di magra, sarebbe già qualcosa, ma nessuno s’illuda che Maduro possa risolvere la nostra crisi energetica. Anzi, il rischio che i costi superino i benefici sono elevati. Per qualche goccio di petrolio in più, il mondo rafforzerebbe un regime dispotico, che nei fatti è alleato proprio di Russia e Cina, le dittature contro cui l’Occidente sta ingaggiando la sua battaglia per la sopravvivenza.

Certo, in una prospettiva di medio-lungo periodo il Venezuela potrebbe tornarci prezioso. Pensate soltanto che, se riuscisse ad estrarre petrolio ai ritmi sauditi, riuscirebbe ad offrire al mercato mondiale 8-9 milioni di barili al giorno in più. Sarebbe la fine dei giochi per l’OPEC. E ne avrebbe le potenzialità, dato che dispone di 300 miliardi di barili di petrolio contro i 268 miliardi accertati sul sottosuolo saudita. Senza andare troppo avanti con la fantasia, però, sarebbe sufficiente che Caracas tornasse ai livelli di fine anni Novanta per alleviare la crisi dell’offerta e assestare un duro colpo alle ambizioni geopolitiche dell’OPEC e della stessa Russia. Il guaio è sempre lo stesso: metteremmo nell’angolo un’autocrazia grazie al petrolio di un’altra.

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