Questa settimana, se ancora ve ne fosse stato bisogno, la Germania ha impartito una lezione a dir poco umiliante all’Italia su come si gestiscono le crisi aziendali. Lufthansa ha rimborsato in anticipo l’ultima tranche dei prestiti ricevuti dallo stato tedesco durante il 2020, quando la compagnia aerea accusò il duro colpo a causa della pandemia. Procediamo con ordine.

L’anno scorso, così come tutte le grandi compagnie aeree, Lufthansa bussò alla porta del governo per chiedere aiuto. Berlino stanziò a suo favore 9 miliardi di euro, ma l’azienda ne utilizzò solo 3,8.

Avrebbe avuto qualche anno di tempo in più per rimborsare il prestito, ma questo lunedì ha provveduto a restituire al governo, cioè ai contribuenti tedeschi, l’ultimo miliardo. A questo punto, lo stato potrà rivendere il restante pacchetto di azioni pari al 14% dell’intero capitale. Infatti, a garanzia del prestito il governo si era preso il 20% delle azioni pagandole complessivamente 300 milioni di euro.

Ai prezzi attuali, la cessione farebbe incassare allo stato più di 1,1 miliardi di euro, per cui i contribuenti ci guadagnerebbero non meno di 800 milioni. Com’è stato possibile un successo così veloce e netto? Lufthansa non si è pianta addosso, non ha incolpato le guerre puniche per le sue disgrazie e si è subito rimessa in volo con l’allentamento delle restrizioni anti-Covid. Prevede di tornare presto al 70% della capacità pre-pandemica. Nei giorni scorsi, ha raccolto 1,5 miliardi sul mercato dei capitali con l’emissione di un bond in due tranche: a 2 anni con cedola 1,625% e a 5,5 anni con cedola 3%.

Alitalia non ripaga i suoi debiti

Grazie a questa operazione, ha potuto rimborsare l’ultimo miliardo di debito allo stato e tenersi i restanti 500 milioni per le esigenze aziendali. Praticamente, in circa un anno e mezzo la compagnia è riemersa dalle difficoltà. I contribuenti tedeschi non potranno lamentarsi, anzi non solo hanno aiutato un asset prezioso a restare in volo, ma finiranno per lucrarci.

Si chiama efficienza, serietà e, ancor prima, rispetto. Rispetto di chi ti aiuta, di chi ha sudato i quattrini necessari per salvarti.

Con Alitalia non è andata affatto così. Nel 2017, lo stato le concesse un prestito “ponte” (sic!) di 900 milioni. Un anno più tardi, il governo “giallo-verde” già sospendeva il pagamento degli interessi dovuti, mentre l’anno successivo ancora il prestito veniva abbuonato. Qualche mese fa, la Commissione europea ha definito tale prestito un aiuto di stato, intimando al governo italiano la riscossione coattiva. Parole al vento, dato che nel frattempo Alitalia ha chiuso formalmente battenti e la sua erede illegittima – ITA – non sarà tenuta a pagare alcunché. Anzi, le è stata concessa una dote di 1,35 miliardi di denari pubblici per iniziare a volare. Quasi certamente non basteranno per arrivare all’estate, l’alta stagione per il comparto aereo.

ITA ha debuttato sui cieli da poco più di un mese. Si sa che nelle prime due settimane dovrebbero aver trasportato circa 250.000 passeggeri, la media di quasi 100 per ciascun volo. Capienza al 57%, in linea con i dati del mercato. Ma già è vittima di migliaia di cause legali dinnanzi al giudice del lavoro intraprese dai dipendenti, tutti ex Alitalia, che tramite i loro sindacati lamentano stipendi troppo bassi. In tribunale tenteranno di dimostrare che ITA non sia altro che Alitalia – è così nei fatti – in modo da ottenere i vecchi stipendi, anche il doppio degli attuali percepiti. Forse anche per questo, pur avendo pagato il marchio Alitalia 90 milioni di euro, la nuova compagnia non lo utilizza, preferendo volare con una sigla oscena e persino ridicola. Mancato il rispetto. Verso i contribuenti, fregati per diversi miliardi nel corso dei decenni. Verso i passeggeri, esposti a disservizi inaccettabili e su cui aleggia persino lo spettro degli scioperi.

Un’altra storia, fin troppo italiota.

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