Malgrado l’annuncio di un piano della BCE per ridurre la frammentazione monetaria nell’Eurozona, lo spread tra BTp e Bund a 10 anni resta sopra i 200 punti base. Questo significa che per comprare titoli di stato decennali italiani il mercato pretende rendimenti del 2% più alti di quelli tedeschi. Per gli investitori si tratta di un premio al rischio certamente positivo, andando ad aumentare il rendimento dei loro portafogli. Per lo stato, invece, significa un esborso maggiore, che chiaramente ricade sui contribuenti attraverso tasse più alte o tagli ai servizi o ancora ricorso all’indebitamento, che a sua volta implica assumersi ulteriori oneri.

Il costo dello spread in Italia

Uno spread alto significa maggiori rendimenti sovrani, vale a dire elevata spesa per interessi sul debito. Nel decennio passato, cioè tra il 2012 e il 2021, l’Italia ha sborsato 680 miliardi di euro solamente per servire il debito pubblico. Tale ammontare ha equivalso al 4% medio del PIL e al 2,9% (tasso implicito) dello stock medio del periodo. Nello stesso decennio, la Germania ha speso per interessi poco più di 180 miliardi, circa 500 miliardi in meno di noi, qualcosa come la media dello 0,60% del PIL e allo 0,86% dello stock.

Se l’Italia avesse pagato nel periodo lo stesso tasso d’interesse implicito della Germania sul debito pubblico, avrebbe speso intorno ai 200 miliardi. E così avrebbe risparmiato 480 miliardi, corrispondenti a 24 punti di PIL per l’anno 2022. In altre parole, senza lo spread avremmo avuto un rapporto debito/PIL già sotto il 125% quest’anno. Chiaramente, se applicassimo gli stessi calcoli sui decenni precedenti, troveremmo una spesa “extra” per interessi nell’ordine delle migliaia di miliardi di euro.

Riforme economiche per attirare la fiducia degli investitori

Lo spread rappresenta il costo che l’Italia deve sostenere in più della Germania per via della minore fiducia che i mercati ripongono sulle sue finanze statali.

La BCE potrebbe varare uno scudo capace di contenerne gli sbalzi verso l’alto, ma resta il fatto che la fiducia degli investitori la si riacquisti solamente grazie a politiche fiscali solide e a riforme economiche capaci di potenziare i tassi di crescita nel medio-lungo termine.

In Europa, si teme che eventuali misure di sostegno automatico ai nostri titoli di stato disincentiveranno i governi italiani futuri dall’adottare le politiche idonee a consolidare i conti pubblici e guadagnare la fiducia di chi detiene i capitali. Non possiamo affidarci ai soli eventuali artifici della BCE per contenere spread e spesa per interessi. La politica italiana dovrà fare la sua parte, ma è da decenni che segnala di girarsi dall’altra parte.

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