Era il 23 marzo del 2019 quando l’Italia firmò il memorandum d’intesa con cui avrebbe aderito alla Nuova Via della Seta, il nome dell’ambizioso piano della Cina con cui nel mondo è noto il Belt and Road Initiative. In data 3 dicembre, il governo di Giorgia Meloni ha inviato una comunicazione ufficiale a Pechino con la quale si rendeva nota l’intenzione di non rinnovare tale accordo al termine concordato dei cinque anni. Formalmente, non si è trattato di una disdetta, bensì di un mancato rinnovo.

E questa soluzione morbida ha consentito alla premier di uscire fuori da una situazione geopolitica ed economica complessa senza indispettire più di tanto il presidente Xi Jinping.

Sono servite settimane di incontri e trattative segrete tra i due governi per arrivare ad una soluzione di compromesso, che è consistita essenzialmente nel tirarsi fuori dalla Via della Seta senza fare rumore e un’umiliante disdetta. La premier lo aveva promesso in campagna elettorale e ha tenuto fede all’impegno. D’altronde, la maggioranza che quasi cinque anni fa aveva sottoscritto l’intesa con la Cina era quella “giallo-verde” del primo governo Conte, formata da Movimento 5 Stelle e Lega. La seconda è alleato e partito anche nell’attuale esecutivo.

Vantaggi zero per l’Italia

La Via della Seta è un’iniziativa ormai decennale, con cui Pechino stringe rapporti economici e politici con numerosi stati al fine di creare diversi corridoi commerciali. Vi hanno aderito diverse decine di paesi, specie in Asia e Africa, dietro la promessa cinese di potenziare gli investimenti nelle rispettive economie. Molti di questi hanno natura infrastrutturale, traducendosi nella costruzione di ferrovie, strade, porti, aeroporti, ecc.

Dati alla mano, la Via della Seta all’Italia non solo non ha portato alcun beneficio, ma addirittura gli investimenti cinesi si sono ridotti all’osso, complice la pandemia. Viceversa, sono aumentati fortemente in paesi come Francia e Germania, che non fanno parte di tale accordo.

E questa è stata una delle ragioni principali che hanno indotto Roma a recedere dalla firma del 2019. A fronte di un costo geopolitico non indifferente, infatti, non si sono visti i vantaggi promessi.

Costo geopolitico elevato

Con l’adesione, il governo Conte si attirò gli strali degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Le cancellerie occidentali hanno duramente criticato l’approccio italiano. Siamo stati l’unico paese del G7 ad avere aderito alla Via della Seta. Essa, contrariamente alle premesse ufficiali, si sta rivelando un mezzo con cui Xi intende annettere alla sua sfera d’influenza pezzi di mondo con il miraggio di investimenti corposi. Sta accadendo che ormai intere economie emergenti sono finite assoggettate a Pechino, che le tiene per il collo a causa dei prestiti elargiti e a fronte di infrastrutture spesso mai completate, marginali o persino sotto il suo diretto controllo.

La Via della Seta è diventata sì un corridoio, ma non per lo scambio di merci, bensì perlopiù per agevolare le aziende cinesi nelle estrazioni di materie prime all’estero. L’Occidente non può accettare passivamente una tale strategia, ma dal 2019 il suo fronte è diventato meno compatto con la firma italiana. Un “tradimento”, che ha indebolito la posizione di Roma in Europa e nei confronti della stessa Casa Bianca. Non si può essere considerati alleati affidabili se si firmano accordi utili a rafforzare il “nemico”. Altra cosa è commerciare e investire con la Cina, cosa che per primi fanno proprio gli Stati Uniti.

Via della Seta tra stagnazione cinese e rischio ritorsioni

Per altro verso la Via della Seta sta perdendo d’importanza e smalto negli ultimi tempi. L’economia cinese sta ristagnando, principalmente a causa del tracollo immobiliare. Il fallimento di Evergrande testimonia che gli investimenti nelle costruzioni siano stati eccessivi nei quindici anni passati.

Le stesse esportazioni, punto di forza della seconda economia mondiale, non sono più garantite come in passato. Tra tensioni geopolitiche e riscrittura in corso delle regole della globalizzazione, gli scambi stanno già “regionalizzandosi” con catene di produzione più corte.

Il rischio di ritorsioni per lo “smacco” subito esiste, però. Ed è per questo che Meloni ha optato per la prudenza. La Cina potrebbe rendere più difficile la vita alle aziende italiane che volessero vendere e/o produrre in loco. Nel mirino finirebbe, in particolare, il comparto del lusso. Le restrizioni potrebbero avere una portata più vasta, riguardando l’intera Unione Europea, visto che Xi è infastidito per la recente svolta di Bruxelles per allentare la dipendenza dal Dragone ai fini della transizione energetica. Ma è l’Italia ad avere indietreggiato rispetto a un accordo. Vedremo con quali conseguenze.

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