Finisce oggi un’era in Islanda, quella legata alle misure di emergenza introdotte nell’ormai lontano 2008 per reagire alla devastante crisi finanziaria mondiale, che travolse le banche dell’isola nordica. Il governo di Reykjavik ha annunciato ieri di avere posto fine, a partire da oggi, ai controlli sui capitali, consentendo liberi movimenti finanziari in entrata e uscita. Immediata la reazione della corona islandese, che ha perso nel corso della passata seduta il 3% contro euro e dollaro, dato che il mercato teme che la decisione possa provocare ingenti deflussi dal paese.

Il ministro delle Finanze, Benedikt Johannesson, ha comunicato anche l’acquisto di assets all’estero in corone per 90 miliardi e al tasso di cambio di 137,50, facendo presente che i fondi, i quali detengono nell’isola capitali bloccati, potranno rivenderli alla banca centrale, avvalendosi dello stesso cambio, altrimenti non sarebbe loro consentito riportarli fuori dall’Islanda. (Leggi anche: Islanda torna sui mercati dopo il crac del 2008)

Corona islandese si è rafforzata molto nel 2016

Considerando che alla chiusura di ieri, un euro veniva scambiato a poco meno di 118, il governo islandese starebbe proponendo agli investitori stranieri di utilizzare per il rimpatrio dei loro capitali un tasso svalutato del 2,7%, ma che si spiega con il fatto, che nel corso degli ultimi mesi del 2008, quando esplose la crisi finanziaria, il cambio crollò di quasi il 35%, salendo fino a 185,5 contro la moneta unica. La banca centrale ha accumulato al 31 dicembre scorso riserve valutarie per 815 miliardi di corone (6,9 miliardi di euro), grazie alle quali l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha promosso il debito sovrano dell’isola da “BBB+” a “A-“.

I 330.000 abitanti stanno beneficiando di ritmi di crescita notevolmente superiori alla media delle altre economie avanzate, con il pil in aumento del 7,2% nel 2016, trainato dal boom del turismo, grazie ad arrivi per 1,8 milioni di stranieri nel corso dell’anno passato, il 40% in più del 2015.

Il settore ha generato entrate per 3 miliardi di dollari, un terzo del totale delle esportazioni, anche se ha rafforzato la corona contro euro e dollaro del 18% nel 2016, complici i relativamente alti tassi di interesse vigenti, cosa che non è piaciuto molto all’industria del pesce locale, vitale per l’economia islandese e che esporta praticamente quasi del tutto verso il Regno Unito, la cui sterlina è precipitata già di suo dopo il referendum sulla Brexit. (Leggi anche: L’Islanda teme una nuova crisi con la corona forte e taglia i tassi)