L’euro è da tempo vittima designata per tutto ciò che non va in Italia ai giorni d’oggi. Il pensiero dominante tra gli euro-scettici vuole che la moneta unica risulti troppo forte per i nostri fondamentali, colpendo le nostre esportazioni. Al contrario, la Germania ci avrebbe “fregati”, avvalendosi di un cambio più debole di quello che avrebbe con il marco tedesco ed esportando a tutto spiano. Meglio sarebbe, secondo loro, tornare alla lira e recuperare la piena sovranità monetaria, che ci consentirebbe di svalutare all’occorrenza e di rilanciare la nostra competitività sui mercati internazionali.

Non vogliamo nemmeno aprire il capitolo spinoso sugli effetti delle svalutazioni competitive sull’economia, tra inflazione rampante e disincentivo ad investire per le imprese. Né vogliamo sottolineare come le ricerche più aggiornate del Fondo Monetario Internazionale abbiano dimostrato come nell’era della globalizzazione, svalutare il cambio avrebbe effetti visibili sempre più flebili sulle esportazioni, senza parlare del rischio di ottenere pan per focaccia da parte degli altri governi.

Italia fuori dall’euro? Ecco come e cosa accadrebbe con il ritorno alla lira

I dati sconfessano il mito anni Ottanta

Partiamo dai dati. I mitici anni Ottanta, quelli che “l’Italia aveva ormai raggiunto i livelli di ricchezza della Germania”, hanno assistito al collasso della lira, passata da un tasso di cambio di 800 a uno di 1.300 contro il dollaro tra l’inizio e la fine del decennio. Al contempo, contro il marco tedesco si passava da 462 a 750. In entrambi i casi, la perdita di valore della nostra moneta fu del 38,4%. Abbastanza per sostenere il Made in Italy, no? Invece, in tutti questi anni, la bilancia commerciale italiana è stata negativa, nel senso che il valore delle esportazioni è risultato inferiore a quello delle importazioni. Tra il 1980 e il 1989, abbiamo accumulato un disavanzo complessivo di oltre 116 miliardi di euro, un valore che corrisponderebbe a circa il 6,6% del nostro pil attuale.

Come mai? I grafici parlano chiaro: se nel 1979 esportavamo verso il resto del mondo per il 22,5% del pil, nel 1991 eravamo crollati al 17%. Eppure, nel bel mezzo vi era stato un quasi -40% accusato dal nostro cambio contro marco e dollaro. Viceversa, le importazioni sono salite dal 18,3% al 19,5% nello stesso periodo. Per dirla in maniera chiara, la liretta non solo alimentava l’inflazione, ma non contribuiva affatto alla crescita della nostra economia, “drogata” semmai dall’eccesso di spesa pubblica, come dimostrano i deficit a due cifre di quegli anni e il rapporto del rapporto debito/pil in poco più di un decennio.

Paradossale che possa apparire ai pasdaran della sovranità monetaria, intesa come stamperie senza ritegno, la ripresa delle esportazioni in rapporto al pil è iniziata ad avvenire con la fine dell’era delle svalutazioni a fini competitivi. La bilancia commerciale ha segnato il migliore saldo netto nel 1996, pari al 3,4% del pil. Il periodo negativo è tornato ad essere quello tra il 2004 e il 2011, quando le importazioni hanno superato le esportazioni. Tuttavia, già dal 2012, in parte anche a causa della minore domanda interna per via della crisi economica, il segno ridiventava positivo e nell’ultimo biennio 2016-’17, le esportazioni nette cumulate hanno toccato i 100 miliardi di euro, circa il 2,8% medio del pil.

Sovranità monetaria senza valore in assenza di fiducia

Non è l’euro il problema dell’Italia

Tutto questo, pur in presenza di un cambio apparentemente più forte di quello che rispecchierebbe lo stato di salute della nostra economia, anche se bisogna considerare che dopo il 2014, l’euro si è di molto indebolito contro le altre valute, per via della politica monetaria ultra-espansiva della BCE. Sì, ma l’Italia non cresce. Giusto e per l’opposta ragione per cui cresceva negli anni Ottanta, ovvero per consumi interni anemici.

I mitici governi di allora, infatti, agendo sulla leva fiscale per espandere il pil hanno sostenuto la crescita a breve, a discapito del lungo periodo. I governi degli ultimi decenni, quelli della cosiddetta Seconda Repubblica, si sono ritrovati a dovere riparare ai guasti dei predecessori e senza margini di manovra all’occorrenza. In sostanza, non hanno potuto realizzare politiche anti-cicliche, bensì solo fiscalmente restrittive. E il solo pensiero che a Roma si sarebbe potuto fare diversamente scatenò la devastante crisi dello spread nel 2011, che ci mise in ginocchio sul piano finanziario e ci costrinse a varare manovre “lacrime e sangue” dall’impatto negativo sull’economia.

No, l’euro non è il problema degli italiani, quanto l’ombra di un passato che non vuole passare e che non ci abbandona. L’assenza di riforme ha fatto il resto, ma essenzialmente ad avere impedito la crescita è stato il balzo della pressione fiscale, esplosa da una media del 35% del pil degli anni Ottanta (poco sopra il 30% nel 1980) all’attuale 43%, decimale in più o in meno. Ciò è andato a discapito dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese, colpendo la domanda interna, nonostante il miglioramento complessivo del saldo commerciale, insufficiente a compensare l’ammanco della prima. E per questo, ringraziate i “grandi” fenomeni politici di un trentennio or sono, che hanno derubato le successive generazioni di un futuro per un consenso spicciolo e persino evanescente. Mani Pulite li azzerò subito dopo il mitico decennio tra le urla festante di un popolo, che iniziava ad accorgersi quanto fragili fossero le basi del proprio benessere.

Italia fuori dall’euro e più deficit per crescere: intervista al salviniano Marco Zanni

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