Tasso di disoccupazione sotto il 4%, milioni di lavoratori che si dimettono per la fiducia di trovare un’occupazione migliore, PIL reale tornato già da tempo ai livelli pre-Covid. Tutto si direbbe, tranne che l’economia americana se la passi male. Eppure, sembra un gigante dai piedi di argilla. L’inflazione è salita al 7% a dicembre, mai così alta dal 1982. La Federal Reserve dovrebbe alzare i tassi d’interesse senza pensarci un attimo, dato che il suo target è del 2%. Tuttavia, si mostra attendista e forse non a caso.

Un rialzo dei tassi è atteso già al board di marzo, ma il problema sta nella capacità dell’economia americana di assorbirlo. La borsa è vistosamente iper-comprata. Il rapporto tra prezzi e utili delle società quotate nell’S&P 500 è salito mediamente a quasi 26, un dato di oltre il 60% più alto della media storica. In sostanza, il mercato azionario a Wall Street sarebbe in bolla. E poi ci sono i fondamentali macro: il disavanzo commerciale nel 2021 si è attestato a oltre 1.000 miliardi di dollari, qualcosa come quasi il 4,5% del PIL. Il saldo corrente è risultato negativo del 3,7% del PIL nel terzo trimestre, mentre il deficit fiscale è esploso a 2.770 miliardi, qualcosa come poco meno del 12% del PIL.

L’economia americana è iper-indebitata: nel settore pubblico è esposta per oltre il 127% del suo PIL, in quello privato per circa il 240%. La verità è che gli americani consumano troppo e a debito. I consumi delle famiglie incidono per il 68% del PIL, quando nell’Eurozona si attestano mediamente al 53%. Una differenza di 15 punti è notevole tra due economie comparabili.

Economia americana e squilibri macro

Questa montagna di debito si regge sui bassi tassi d’interesse e a sua volta provoca squilibri fiscali e commerciali evidenti. Se non fosse l’America, questo stato di cose avrebbe provocato una crisi del cambio. Ma il mondo continua a fidarsi del dollaro, ancora di fatto unica valuta di riserva mondiale.

Questo sta permettendo all’economia americana di crescere a fronte di squilibri crescenti. Prima o poi, però, i nodi arriveranno al pettine. Finché l’inflazione oscillava intorno al target del 2%, il costo del denaro poteva rimanere basso e finanziare la bolla finanziaria. Adesso, inizia ad essere percepito insostenibile.

Un cittadino americano che finanziasse il suo governo, allo stato attuale si vedrebbe decurtato il capitale in dieci anni di oltre la metà del suo valore reale. Zio Sam non può sperare di attirare indefinitamente la fiducia dei suoi stessi cittadini derubandoli. Quest’anno, la FED dovrebbe alzare i tassi all’1-1,25%. Troppo poco, eppure già i timori sono altissimi. Cosa ne sarà della borsa? E quale il contraccolpo su famiglie e imprese? Per non parlare dello stato federale. Non può continuare ad ignorare il problema irrisolto ormai da decenni: o taglia la spesa pubblica o alza l’imposizione fiscale o fa un mix delle due cose. L’unica opzione impossibile sarebbe di lasciar stare le cose come sono.

Il risanamento dei conti pubblici ridurrebbe la domanda aggregata interna, abbassando le importazioni e riequilibrando anche la bilancia commerciale. Sarebbe inevitabilmente un duro colpo per l’economia mondiale, venendo meno il suo principale acquirente netto. L’unica alternativa sarebbe un secondo Accordo di Plaza con cui concordare tra le principali potenze del globo (USA, Europa e Cina) la svalutazione del dollaro. Ma richiederebbe con ogni probabilità una stretta monetaria per frenare l’inflazione importata, un fatto che colpirebbe i consumi interni e gli investimenti. Insomma, dai fondamentali economici non si scappa. Gli USA ci sono riusciti già per fin troppi anni. E più tempo passa, più il conto da pagare sale al termine della festa sale.

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