Il numero degli occupati in Italia è risalito ai livelli pre-crisi del 2008, arrivando a 23 milioni 740 mila unità, pari a un tasso del 58,1% della popolazione in età lavorativa, ovvero tra i 15 e i 64 anni. Crisi finita? Sembrerebbe di sì, se non fosse che lo stesso rapporto integrato, presentato pochi giorni fa al governo da Istat, Inail, Inps e Anpal, ha offerto una disamina più completa, chiarendo che, a parità di posti di lavoro, rispetto al 2008 vi sarebbe attualmente il 6% di ore lavorate in meno.

I contratti a tempo determinato, poi, sono saliti al record storico di quasi 2,8 milioni di unità, che in rapporto all’occupazione totale restano in linea con la media europea. Il problema è che una enorme fetta di questi contratti sarebbe lavoro precario propriamente detto, dato che nel 30% dei casi la durata media sarebbe di appena 1,4 giorni, ovvero di poche ore. E allora, se si passa dalla statistica ufficiale alla vita reale, nessuno può verosimilmente immaginare che la crisi dell’occupazione sia finita. Anzitutto, perché nemmeno nel 2008 l’Italia vantava una condizione positiva per il suo mercato del lavoro, con tassi di occupazione notoriamente più bassi di quelli medi europei e delle economie avanzate, in generale. (Leggi anche: L’imbarazzante ripresa del lavoro in Italia in due grafici)

Il tema della precarietà del lavoro è stato oggetto di scontro di ognuna delle ultime tre campagne elettorali almeno e ha visto il governo di turno schierato in difesa dell’esistente e le opposizioni ad attaccare a testa bassa, promettendo agli italiani la fine dell’occupazione instabile, come se questa fosse frutto di una strategia ricercata appositamente da chi aveva governato negli anni precedenti.

Essendo ormai in campagna elettorale (si voterà a marzo, massimo ad aprile), la maggioranza cerca il modo di arrivare alle urne coperta sul fronte lavoro. E lo fa con la presentazione in Parlamento di due proposte di legge, che vanno nella direzione di limitare la precarietà.

Come? Una prevede di abbassare il tetto massimo di durata dei contratti a termine da 36 a 24 mesi; un’altra punta ad aumentare le mensilità a carico del datore di lavoro nei casi di licenziamento senza giusta causa.

Gli effetti del Jobs Act

Se queste due misure passassero (il governo vorrebbe correggere la prima e sarebbe contrario alla seconda), l’occupazione sarebbe realmente più stabile in Italia? Se, come abbiamo scritto, il problema dei contratti a termine sarebbe non i 36 mesi, bensì i pochi giorni o settimane di durata di una loro grossa percentuale, l’abbassamento del tetto non impatterebbe minimamente sul lavoro davvero precario, semmai colpirebbe quelle imprese, che pur non essendo inizialmente intenzionate ad assumere con contratti a tempo indeterminato, in ogni caso offrirebbero al lavoratore una prospettiva di 2-3 anni, che non sono pochi. (Leggi anche: Lavoro in Italia? Poco, precario e per i più anziani)

Il Jobs Act nel 2015 è stato l’unico provvedimento capace di sostenere, pur per pochi mesi, l’occupazione stabile. Peccato che i suoi effetti si siano dissipati già dallo scorso anno e siano del tutto venuti meno quest’anno. Perché? Esso prevedeva la decontribuzione totale per i contratti a tempo indeterminato accesi nel 2015, parziale per quelli siglati l’anno seguente. In entrambi i casi, ai lavoratori assunti è stata offerta una maturazione graduale dell’accesso all’art.18, quello che li pone al riparo dai licenziamenti senza giusta causa.

Cosa ci ha insegnato il Jobs Act? Le imprese italiane assumono con contratti precari per l’impossibilità di sobbarcarsi l’elevato peso dei contributi previdenziali, la cui aliquota è di ben il 32,7%, la più alta tra le economie OCSE. Se si volesse stabilizzare l’occupazione, sarebbe questo il fronte sul quale agire, non intaccando la possibilità per le imprese di ricorrere al lavoro temporaneo, perché irrigidire le relazioni tra le due parti del mercato implica la distruzione e non la creazione di nuovi posti di lavoro.

Tagliare la tassazione, non porre nuovi limiti

Quanto all’altra misura, quella che vorrebbe incrementare le mensilità erogate per i licenziamenti dichiarati illegittimi dal giudice, si tratterebbe di un boomerang bello e buono. Aumentando il costo del lavoro per eventuali “errori” commessi all’atto del licenziamento, l’impresa opterebbe maggiormente per assumere a termine e non a tempo indeterminato, in modo da pararsi dal rischio di dovere incorrere in una sanzione troppo salata.

Le proposte di cui sopra non hanno nulla a che spartire con la volontà di incentivare l’occupazione stabile, ma parlano alla pancia dell’elettorato, che chiede lotta alla precarietà. Se davvero si volesse agevolare la creazione di lavoro stabile, oltre che sostenere in maniera più convinta la ripresa economica (le imprese assumono spesso a tempo, non avendo prospettive chiare sul futuro), bisognerebbe abbattere la contribuzione Inps, che nei fatti paralizza le assunzioni e deruba gli stessi lavoratori dal costruirsi un futuro più decorso per la vecchiaia, privandoli di risorse adeguate da accantonare con un’integrazione privata. Piuttosto che applicarsi alla risoluzione di un problema in sé abbastanza complicato, la politica finge ciclicamente di risolvere i problemi con espedienti inutili e persino controproducenti. Ce ne accorgeremo nei prossimi anni con i nuovi numeri Istat sull’occupazione. (Leggi anche: Tasse sul lavoro troppo alte e occupazione troppo bassa in Italia)