Sfiorava i 2.760 miliardi di euro il debito pubblico italiano ad aprile, segnando un ennesimo record storico. Nel frattempo, lo spread è tornato a incombere come una minaccia per la sostenibilità delle nostre finanze statali. Si è reso necessario un intervento urgente della BCE per placare gli animi sui mercati con la rassicurazione di un piano anti-spread allo studio. Insomma, siamo alle solite. Stavolta, però, tra i banchieri italiani non si levano solo voci preoccupate circa l’andamento dei conti pubblici. L’amministratore delegato di Banca Intesa-Sanpaolo, Carlo Messina, ha difeso a spada tratta il nostro debito pubblico, appellandosi agli italiani perché tornino a comprarselo.

L’appello di Messina per l’indipendenza finanziaria

Intervenendo al convegno Young Factor organizzato dall’Osservatorio permanente Giovani Editori a Milano, il manager ha dichiarato che se vogliamo restare in Europa da “leader” e “liberi”, serve che ci riappropriamo del nostro debito pubblico e allentiamo la dipendenza dal “bocchettone della BCE”. A suo avviso, sarebbe una “idiozia” parlare di “indipendenza energetica”, “indipendenza alimentare” e non anche di “indipendenza finanziaria”.

Secondo Messina, l’Italia meriterebbe uno spread intorno a 100-150 punti, data la solidità economica e l’enorme ricchezza privata interna. Quest’ultima ammonta a 10.000 miliardi di euro, nota. Se ne utilizzassimo una quota per acquistare titoli di stato, la dipendenza da BCE e finanza straniera verrebbe meno. Ed ecco arrivare l’appello “patriottico” agli italiani: ricompratevi il debito pubblico!

I dati sul debito pubblico

Gli ultimi dati disponibili ci dicono che all’estero si trova il 30% dello stock, cioè 687,4 miliardi di euro. Questa cifra include i BTp in pancia alla BCE, che sarebbero nell’ordine dei 140 miliardi (i restanti 580 miliardi acquistati tra QE e PEPP li detiene fisicamente la Banca d’Italia) e i titoli posseduti dagli italiani tramite entità con sede all’estero. A dire il vero, già oggi la stragrande maggioranza del debito pubblico italiano è nelle mani di soggetti nazionali, perlopiù banche e assicurazioni.

Anzi, in tutti questi anni ci siamo detti che la quota in mano a soggetti stranieri fosse indicativa dello stato di fiducia che i mercati nutrirebbero verso l’Italia.

Tutto vero, ma c’è anche che le famiglie italiane posseggono appena il 5% dei titoli del debito pubblico. Negli anni Novanta, erano al 90%. Da allora, la finanza si è evoluta, così come le conoscenze finanziarie degli italiani. I mercati si sono globalizzati e con un clic oggi è possibile investire ovunque. C’è stato anche il crollo dei rendimenti ad avere allontanato le famiglie. Queste possedevano ancora il 14% dello stock prima del “quantitative easing”, che nei fatti azzerò cedole e rendimenti. Sarebbe irrealistico ipotizzare un ritorno ai numeri degli anni Novanta, anche perché allora il debito pubblico costava tantissimo, fino al 12% del PIL contro il 3,5% di oggi.

La “garanzia” della ricchezza privata

Tuttavia, Messina ritiene che gli investimenti nel debito pubblico vadano incoraggiati. Fino a qualche settimana fa, però, la politica italiana voleva alzare la tassazione sui BTp, segnalando di non avere alcuna idea di come approcciarsi a un problema che esiste ed esisterà ancora di più nei prossimi anni. Piaccia o meno, se dai 10.000 miliardi di ricchezza privata non faremo spazio ai titoli di stato per diverse centinaia di miliardi, il rischio è che finiremo a pagare tramite patrimoniali e piani lacrime e sangue. O i conti pubblici quadrano per via di una spesa per interessi stabile o tagliando la spesa pubblica e alzando le entrate. Si spera che il boom dei rendimenti di questi mesi riavvicini le famiglie al debito pubblico italiano. Ma se ogni due e tre ci raccontiamo che non sia sostenibile e che siamo sull’orlo del default, difficile che ciò avvenga per grandi numeri.

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