Non ci sarà Rocco Casalino tra i candidati del Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche del 25 settembre. L’ex portavoce di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi spiega che il suo nome sarebbe stato “divisivo” e che avrebbe alimentato polemiche. Conclude amaro di pagare ancora la sua partecipazione al Grande Fratello nel 2000. E, intanto, l’ex premier “fa fuori” due candidature ingombranti: quella dell’ex sindaco di Roma, Virginia Raggi, e di Alessandro Di Battista. Formalmente la prima non può candidarsi per il vincolo del doppio mandato, mentre il secondo è uscito dal Movimento 5 Stelle in dissenso con la linea filo-draghiana e filo-PD di Conte.

La verità è che i parlamentari grillini al prossimo giro saranno un gruppetto rispetto ad oggi. Non solo il numero degli eletti scende da 945 a 600 tra Camera e Senato, ma le percentuali a cui può realisticamente ambire il Movimento 5 Stelle oggi sono un terzo di quelle ottenute nel 2018. I seggi “sicuri” a disposizione restano pochi, perlopiù concentrati al Sud. Meglio conservarli a favore degli amici, non dei piantagrane. Attenzione, va così in ogni partito. La cooptazione non è prerogativa di Conte. Anzi, egli può vantare lo strumento delle “parlamentarie” per redigere le liste. Ma chi ci crede che saranno gli iscritti online a decidere chi debba candidarsi dove?

Ad ogni modo, l’esclusione di Raggi e Di Battista dalle candidature sarebbe un potenziale autogol. I due sono popolari tra la base, non sono scesi mai a patti con il PD, non sono stati compromessi con il potere e mai sono stati draghiani. Ma a Conte fanno paura proprio per questo. In primis, perché dopo una verosimile disfatta elettorale uno tra i due potrebbe rivendicare la leadership nel Movimento 5 Stelle, archiviando definitivamente la stagione dell'”avvocato del popolo”.

Movimento 5 Stelle e il campo largo dopo le elezioni

Poi, c’è una ragione meno personale e più “politica”.

Se Raggi e Di Battista fossero i volti del Movimento 5 Stelle nella legislatura che verrà, l’alleanza con il PD sarebbe esclusa una volta per tutte. Invece, Conte non ha abbandonato l’idea di essere protagonista del “campo largo” progressista lanciato da Enrico Letta. Solo che ha dovuto rinunciarvi per prendersi uno sfizio più gustoso: eliminare politicamente Luigi Di Maio. Questi sarà eletto nella coalizione del PD, ma nei fatti non sarà in grado di far tornare in Parlamento nessuno dei suoi uomini, cioè ex deputati e senatori dei 5 Stelle in rotta di collisione proprio con Conte.

L’ex premier tornerà a dialogare con il Nazareno dopo le elezioni. Egli si porrà come l’ala sinistra di una coalizione con il PD a fare da partito centrista. In effetti, i toni usati sinora non sono stati di assoluta rottura, a parte una sola dichiarazione resa a metà settimana sull’impossibilità di accordo anche dopo le elezioni. Egli addebita ai democratici la mancata alleanza, come per segnalare che, fosse stato per lui, un accordo con Letta lo avrebbe stretto. Non è detto che riuscirà nell’intento. Se il PD perderà le elezioni, il segretario avrà le ore contate. E il successore potrebbe porre fine a una qualsivoglia intesa con i grillini. E ciò, specie se il risultato per i dem fosse catastrofico.

D’altronde, l’unico modo per sopravvivere politicamente per il Movimento 5 Stelle sarebbe di darsi un’identità definita. A destra gli spazi sono occupati, mentre il ruolo di partito anti-sistema risulterebbe grottesco dopo che in quattro anni i grillini si sono alleati nell’ordine con Lega, PD e persino Forza Italia, cioè quasi tutti. Temi come l’ambientalismo, il salario minimo, il giustizialismo, il pacifismo, la lotta all’austerità fiscale sono loro congeniali e si sovrappongono a quelli di una sinistra ormai inesistente in Parlamento.

Meglio, quindi, presentarsi alle elezioni con facce meno note, ma che saranno meno divisive quando si tratterà di tornare ad allearsi con il PD.

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