Il rapporto tra debito pubblico e pil nell’Eurozona quest’anno dovrebbe esplodere intorno o poco oltre il 100% del pil, tra collasso dell’economia nell’area e stimoli fiscali necessari per sostenerla. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il deficit salirà al 7,5% del pil, quando nel 2019 si era fermato allo 0,6%. Dunque, esisterebbero 6 punti netti di maggiore disavanzo e quasi la metà di questo aggravio per i conti pubblici arriverebbe proprio dai pacchetti nazionali varati dai governi per sostenere i redditi, se è vero che la Commissione europea ha appena rivisto al ribasso le sue stime al -8,7% per l’anno in corso.

Come il debito pubblico italiano continua a restare sostenibile grazie alla BCE

Ma più i governi incrementano gli aiuti a famiglie e imprese, più sembra che il pil crolli. Viene da chiedersi cosa accadrebbe in assenza di questo imponente allentamento fiscale, reso possibile dall’accomodamento monetario estremo della BCE, che tra “quantitative esaing” ordinario, straordinario e acquisti emergenziali con il PEPP, ha deliberato tra marzo e giugno oltre 1.700 miliardi di euro di shopping di assets finanziari, perlopiù titoli di stato.

Grazie a questa copertura, i governi stanno potendo emettere debito sui mercati senza sostenere alcun aggravio di costo, anzi questo risulta persino ai minimi storici per gran parte dei paesi dell’area. La stessa Italia, su cui si stanno concentrando le tensioni negli ultimi tempi, riesce a indebitarsi a costi calanti, con il decennale ad oggi in area 1,25%. E questo trend si rivelerà importante per gli anni futuri, quando i titoli di stato emessi in questi mesi arriveranno a scadenza e dovranno essere rinnovati ai tassi di mercato che vigeranno per allora, probabilmente più alti per via del minore sostegno della BCE.

Debito pubblico sempre meno efficace

I governi stanno potendo emettere titoli a lunga scadenza, così da rinviare il più possibile l’appuntamento con tali preoccupazioni.

L’Austria, uno dei famosi “porti sicuri” dell’Eurozona, ha collocato sul mercato nei giorni scorsi un nuovo bond a 100 anni al rendimento di appena lo 0,88%. Per i 2 miliardi di capitali raccolti, Vienna non dovrà preoccuparsi da qui al prossimo secolo, quando con ogni probabilità il peso di questi titoli rapportato al pil si sarà enormemente sgonfiato, vuoi per la crescita economica nel frattempo registrata, vuoi per l’inflazione.

Partenza super-sprint per il bond a 100 anni dell’Austria: tutti lo vogliono, perché?

Tutti i governi, chi più e chi meno, sta indebitandosi a ritmi come poche volte nella loro storia, ma c’è il forte sospetto che servirà ben poco a sostenere le economie nel medio-lungo termine. I debiti si accumulano e i tassi di crescita perdono vigore. Nel decennio passato è accaduto esattamente questo, ovvero che l’aumento dei debiti sovrani nell’area sia stato in valore assoluto superiore a quello del pil nominale. E’ servito più di 1 euro del primo per aumentare di 1 euro il secondo. Nel decennio ancora precedente, il pil era cresciuto di 1,10 euro per ogni 1 euro di maggiore indebitamento.

Più cresce il debito pubblico, minore la sua efficacia. Evidentemente, il suo impatto netto su consumi e investimenti tende ad assottigliarsi. Da qui, probabilmente anche la riduzione dei costi di emissione, al netto dell’accomodamento monetario di Francoforte. Essendo divenuto meno capace di produrre ricchezza, è come se i governi si mostrassero disposti a tollerare minori costi per emetterlo, preferendo altrimenti optare per alternative di stimolo alla crescita, tra cui le riforme. Un po’ la spiegazione contraria a quella del rischio di azzardo morale a cui siamo portati spesso a pensare quando notiamo che bassi tassi tendano a favorire l’indebitamento.

La spirale perversa tra debito e tassi

E se fosse proprio questa seconda spiegazione ad avere senso? I tassi bassi avrebbero finito, cioè, per rendere il debito pubblico troppo a buon mercato per i governi, con la conseguenza che spesso questi lo emettono per finanziare voci di spesa dalla dubbia qualità.

Anziché investimenti pubblici, propendono per misure più immediatamente popolari, come il sostegno diretto ai redditi, ma con ciò rendendo meno efficace l’impatto del nuovo indebitamento sulla crescita di medio-lungo periodo.

Lo stesso fatto che i tassi d’inflazione non ne vogliano sentire di risalire sarebbe sintomatico di tale problema. Per quanto le banche centrali di mezzo mondo stampino moneta da oltre un decennio, “drogando” il mercato con tassi reali spesso nettamente negativi, la crescita dei prezzi rimane stagnante, segno che la maggiore liquidità iniettata non entri in circolazione sui mercati dei beni e dei servizi, restando confinata alla sfera finanziaria, quella percepita a maggiore tasso di crescita in termini di valore.

La bassa inflazione a sua volta aggrava il quadro macro complessivo, aumentando il peso dei debiti in un’ottica di lungo periodo e per contrastare il quale le banche centrali stanno da anni potenziando gli stimoli, tenendo bassi i tassi, finendo per mandare i rendimenti obbligazionari in territorio negativo sui mercati avanzati. Solo così, i costi di rifinanziamento del debito vengono tenuti sotto controllo, nonostante il rapporto debito/pil tenda a crescere un po’ ovunque sia per i disavanzi fiscali, sia per la bassa crescita economica. Siamo finiti in un “loop” di cui non si vede la fine. La BCE ha dovuto pian piano smentire tutti i cardini della sua impostazione monetaria prescritta nei Trattati per non rischiare la crisi irreversibile dell’euro e a breve monetizzerà piuttosto formalmente almeno quel primo 60% di debiti sovrani degli stati, che è la quota di riferimento a cui i governi dovrebbero tendere nei decenni, secondo il Fiscal Compact.

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